lunedì 18 gennaio 2010

Rapporti tra arte e Vaticano nel 2009

La Chiesa ha sempre riconosciuto la capacità delle immagini artistiche di incidere nella mente umana e, proprio per questo ha continuamente tentato di assoggettarle ai suoi principi. L'antica vittoria in quella che è stata una vera e propria guerra contro l'iconoclastia , con vittime da ambo le parti, e che ebbe la sua definitiva condanna nel concilio di Nicea sancì l'importanza dell'uso delle immagini per la diffusione del pensiero religioso cristiano. Il conflitto si ripropose nel Cinquecento con lo scisma protestante. Il Protestantesimo infatti si scagliò contro l'uso idolatrico delle immagini, ma la Chiesa di Roma, con il Concilio di Trento ne riaffermò l'importanza dichiarando la necessità che "il popolo venga istruito, a mezzo di raffigurazioni pittoriche o di altro genere, sui misteri della nostra redenzione affinché si rafforzi l'abitudine di avere sempre presenti i prinicipi della fede". Le immagini, veniva dichiarato, hanno il compito di ammonire e di mostrarsi come esempi perchè stimolino l'imitazione attraverso l'identificazione con il rappresentato che, proprio per rispondere a tale funzione deve suscitare pietà e commozione. Sono passati circa cinquecento anni dal lontano 1563 e l'arte si è da tempo liberata dai numerosi tentativi di assoggettamento ideologico operati dalla Chiesa o da altri regimi totalitari è per questo ancor più interessante leggere la Lettera che papa Ratzinger ha dedicato agli artisti nel giorno dell'incontro avvenuto nel 2009, al quale hanno partecipato anche artisti che, fino a quel momento, abbiamo giudicato "liberi". Il testo è particolarmente interessante anche perchè ricorda i precedenti interventi di papa Giovanni Paolo II, nel corso del Giubileo del 2000, e di papa Paolo VI, del 1963. Nelle parole di quest'ultimo riecheggiano i termini già presenti nel testo dedicato all'arte del Concilio di Trento: l'arte deve "rendere accessibile e comprensibile" la dottrina e deve "commuovere". Significativa è anche l'interpretazione che il papa fa del messaggio michelangiolesco contenuto in quella Cappella Sistina che racchiude in sé i più grandi capolavori del Rinascimento Romano. Il papa parla del Giudizio Universale di Michelangelo come "annuncio di speranza" e non vede, o non vuole che si veda la pelle svuotata di Sa Bartolomeo, autoritratto dello stesso artista, che parla di una profonda depressione legata forse proprio all'impossibilità di trovare la "salvezza" nel messaggio della Chiesa. Papa Ratzinger sa perfettamente che la bellezza è legata alla "ricerca del senso", ma il senso va per lui cercato nel Trascendente non nella vita reale. E' anche interessante notare la chiara condanna dell'irrazionale, condanna che dichiara apertamente l'incapacità della religione di comprendere il fare artistico che, anche quando ha dovuto assoggettarsi a regole e canoni prestabiliti, ha sempre trovato la sua fonte nel non razionale, in quella dimensione non cosciente che vive di immagini e che è la sorgente della creatività umana. DISCORSO DEL SANTO PADRE Signori Cardinali, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, illustri Artisti, Signore e Signori! Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione. Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza". Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte" (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di "ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica "rinascita" dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo. Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro. Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.). Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello. Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui". Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo. Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16). Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di "figure" – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti. Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L’arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione. Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente. Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

mercoledì 6 gennaio 2010

PICASSO Corriere della Sera 29.9.09

Corriere della Sera 29.9.09 Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi Picasso, il gigante della mia infanzia «Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo» di Nuccio Ordine


«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto sal­vo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Pi­casso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni tra­scorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dal­l’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pitto­re: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matri­monio con Olga Kokhlova), è precoce­mente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rap­presentano l’ala femminile della fami­glia. Claude, nella sua veste di ammini­­stratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picas­so administration»: una società che si oc­cupa dei diritti legati all’utilizzo del no­me dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’ini­zio, vivevamo a Parigi in un appartamen­to- atelier sempre pieno di gente che vole­va vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte vie­ne prima di ogni cosa».
E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di en­trare nel suo atelier. Era convinto, ribal­tando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movi­menti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei ver­nissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per ar­ricchire l’esposizione». Anche la differen­za di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena venti­sei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia ma­dre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno».
Anche la quotidianità del piccolo Clau­de non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io ama­vo rompere le automobili per vedere co­me erano fatte. Un giorno cercavo dispe­ratamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vi­di incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capa­cità di ridare vita a cose morte. Fui testi­mone a Vallauris di un altro piccolo mira­colo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma».
Il senso dell’umorismo, fino all’irrive­renza, era un tratto particolare del suo ca­rattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guer­nica .
Alcuni ufficiali nazisti vedendo la ri­produzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scop­piò con la morte di Stalin: Pablo lo dipin­se giovane e mandò su tutte le furie i diri­genti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella li­bertà dei popoli».
Tra i ricordi, occupano un ruolo fonda­mentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di cono­scere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rappor­to speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tes­sevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio es­sere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissi­mi nuovi quadri che non avevo ancora vi­sto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era an­che cosciente del fatto che i giovani, libe­ri da pregiudizi intellettuali, potevano es­sere i suoi migliori interlocutori. Poi, gra­zie anche ai consigli di mia madre, cam­biai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piaceva­no ».
Pur respirando l’arte ogni giorno, Clau­de non ha mai pensato di seguire le or­me del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gi­gantesca. Per tutta la vita Picasso ha so­stenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fidu­cia nella scuola, insegna soprattutto la ri­petizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio non­no, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Par­tire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionar­li, farli esplodere».
I ricordi dei momenti feli­ci non cancellano però le sof­ferenze. «Ho vissuto con do­lore la separazione dei genito­ri. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vede­vo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande fe­sta. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudi­ne. E talvolta lo aiutavo nelle scul­ture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due fi­gli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra fami­glia era ancora tutta da immaginare».
Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indi­rettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allu­de anche alla separazione dalla sua pri­ma moglie, Olga. Lui si vede come un mo­stro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interes­santi pure le allegorie del pittore: gli ar­lecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la so­litudine dell’artista, la sua emarginazio­ne. Un uomo celebrato da tutti, ma pro­fondamente cosciente delle tristezze del­la vita e delle angosce che comporta qual­siasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pub­blicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».