sabato 7 maggio 2011

“De Chirico e Sironi. Il vuoto e la solitudine”

Il problema della rappresentazione dello spazio in pittura ha radici lontanissime. Senza addentrarci nell'arte più antica, pensiamo sommariamente alla nascita del concetto di arte come mimesi nel mondo greco, tradotto esemplarmente, per quel che riguarda il tema che stiamo affrontando, dalla pittura romana che dello spazio, e in particolare di quello architettonico, fa uno degli elementi più ricorrenti attraverso uno stile fortemente illusionistico.

Dopo quel fecondo crogiolo di stili che è stato il Medioevo, con la sua messa in crisi dell'idea di arte come perfetta mimesi del reale, alla fine del Duecento, attraverso un cambiamento ideologico connesso alla concezione tomistica del mondo, e sotto la forte spinta della pittura giottesca, si torna alla rappresentazione realistica dello spazio che avrà il suo apogeo nel Rinascimento con gli scorci urbani di Masaccio, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Mantegna, solo per citare gli artisti più significativi in tal senso.

Lo spazio architettonico o urbano è stato rappresentato, nella storia dell'arte italiana, forse già nel confronto fra Cimabue e Giotto, da due punti di vista diversi.

Le tipologie di rappresentazione dello spazio urbano avevano seguito per secoli in Italia due strade, quella simbolica e archeologica e quella 'metafisica' delle 'città ideali'.”1.

Da un lato le citazioni dall'antico, ricordo della grande architettura classica, dall'altro la creazione di spazi sempre più idealizzati – pensiamo alla pierfrancescana città ideale - dove la presenza umana si fa meno significativa se non addirittura assente.

Il Barocco, periodo per eccellenza dell'illusionismo spaziale, creerà infiniti giochi architettonici per trasportare gli esseri umani, sia quelli rappresentati che gli spettatori reali, in una dimensione illusoria pregna di tutta la potenza del reale. Una rappresentazione dello spazio che rispondeva a necessità ideologiche ben precise, ma anche a una concezione dello spazio stesso infinitamente ampliatasi dopo Copernico e Galileo.

Il Neoclassicismo tornerà, come è ben noto, allo spazio classico, chiaro e razionalmente definito, che verrà presto soppiantato dall'infinito e sublime romantico nelle cui rappresentazioni si predilige tuttavia lo spazio naturale, più consono, proprio per la sua indefinitezza e mutevolezza, all'espressione delle passioni e del sublime. Un caso a sé è rappresentato da William Turner che affronta, in alcuni casi, lo spazio urbano immergendolo in una cascata di luce che avvolge le pur solide architetture trasportandole in un'atmosfera onirica, non lontana da quella dei suoi stessi paesaggi naturali.

Il Realismo francese di metà Ottocento sembra privilegiare l'uomo, il suo lavoro, le sue attività concrete, spesso in uno spazio naturale più che urbano. Quest'ultimo, quando appare, è sempre visto da uno sguardo distanziato e, in un certo senso, parificato al paesaggio naturale del quale costituisce un elemento come segno dell'opera dell'uomo in esso.

È con l'Impressionismo che la scena urbana tornerà a giocare il suo ruolo, soprattutto come celebrazione della città moderna che ha in Parigi il suo emblema. Da questo momento la città con il suo brulicare di individui diventerà un soggetto fondamentale per molti artisti. Alcuni, come gli impressionisti francesi, ne coglieranno l'aspetto vitale e moderno. Altri scorgeranno nello spazio urbano il luogo dei conflitti e delle contraddizioni nascenti di una società che andava velocemente industrializzandosi e rendendo conflittuale lo spazio di vita reale, caricandolo così di valori fortemente espressivi. Ma siamo qui già all'interno delle Avanguardie del Primo Novecento nelle quali il problema della rappresentazione dello spazio assume ruolo centrale anche come elemento specifico del linguaggio artistico.

Il Cubismo, riprendendo la ricerca iniziata da Cézanne, affronta il problema nel modo più radicale, arrivando a distruggere la prospettiva tradizionale e con essa una visione razionale dello spazio stesso, che viene frantumato e ricostruito, così come delle figure in esso contenute. Considerato elemento di un'esperienza percettiva e conoscitiva totale - spazio vissuto - esso contribuisce alla creazione dell'immagine mentale dell'esperienza vissuta e ricreata sulla tela: la scomposizione trasforma l'ambiente rendendolo non più semplice fondale o contenitore della scena, e dunque elemento neutro, ma organismo vivo fondante l'esperienza artistica stessa, non più considerata soltanto visiva. Anche i Fauves, e in particolare Matisse, sentono fortemente il problema dello spazio che diventa, in questo caso, colore: un'atmosfera affettiva diffusa nella quale immergere le figure e le cose che dallo spazio-colore acquistano forte valore emozionale. Tuttavia in Matisse e Picasso il paesaggio urbano non gioca un ruolo così importante: la loro attenzione è tutta concentrata sulla figura umana e sullo spazio che essa occupa, più che su una visione paesaggistica dell'ambiente. Un'eccezione sembrano infatti rappresentare, nella carriera di Picasso, i paesaggi (pensiamo ai paesaggi a Horta de Hebro o alla Roche-de- Bois) e strettamente legati alla fase protocubista o del primo cubismo analitico; si tratta di visioni di costruzioni immerse nella natura. Mai si presenta in Picasso l'immagine della città per se stessa. La scomposizione cubista e il colorismo fauve si fonderanno poi in alcuni cubisti dei salons nella costruzione di paesaggi urbani nei quali gli elementi architettonici e la folla delle città daranno luogo a visioni mentali fortemente dinamiche attraversate da fumi e atmosfere luminose, in una concezione ottimistica della città nella quale si proiettano a volte aspirazioni spiritualistiche. Nell'espressionismo tedesco della Brücke, la città diverrà, al contrario, schermo di proiezione del malessere sociale e individuale deformandosi fino a esprimere le angosce di un individuo schiacciato dalla modernità, contrapposto a un paesaggio naturale mitico e lontano nel quale ritrovare la felicità perduta.

Con il futurismo italiano l'ambiente urbano diverrà tema principe, in uno spazio fortemente dinamizzato e scomposto, anche grazie alle influenze del cubismo, e attraversato dai miti della nascente società industriale italiana: dalla macchina alla fabbrica. Lo spazio viene qui animato e vivificato dalla forza del dinamismo che, insieme a figure e cose, travolge l'ambiente in una vertigine di linee-forza che rifiutano qualsiasi staticità.

La Prima guerra mondiale con la sua capacità distruttiva avrà, su tutta la ricerca artistica europea, conseguenze radicali. Si apre il cosiddetto periodo del ritorno all'ordine, dopo quella distruzione reale e travolgente che lascia tutti, artisti e non, attoniti per la sua assurda violenza. Lo spazio urbano ne porterà ovviamente i segni. Non si è ancora arrivati alla devastante distruzione delle città che esploderà con la Seconda guerra mondiale e con un anticipo nella Guerra di Spegna, ma i segni della distruzionesi ravvisano nella povertà e nella desolazione delle periferie urbane, vissute dalle classi sociali più povere, dove il paesaggio si trasforma per far posto alle industrie che hanno il grande compito di far rinascere l'economia nazionale. L'aspetto è particolarmente evidente in Italia, paese nel quale l'industrializzazione muoveva i suoi primi passi negli anni Dieci e che si avvia, dopo la guerra, a una ricostruzione che è anche costruzione ex novo della modernità.

Il tema del paesaggio urbano occuperà, dunque, un ruolo particolarmente importante in alcuni artisti degli anni tra le due guerre, o come esaltazione della moderna città voluta dal regime o come denuncia della disumanizzazione dell'ambiente urbano o come schermo sul quale proiettare ideali e tensioni.

Parlare di paesaggio architettonico nella pittura tra le due guerre fa subito venire alla mente la pittura metafisica e in particolare Giorgio De Chirico, ma il paesaggio architettonico è presente in maniera forse anche più assidua nella pittura di Mario Sironi che può essere, per alcuni aspetti, avvicinata, o meglio confrontata, con la stessa pittura dechirichiana. In ambedue la scena architettonica è protagonista significante, anche se il senso che essa assume è, a nostro avviso, diametralmente opposto. In De Chirico si delinea lo spazio come assenza dell'umano, in Sironi, al contrario, esso è proiezione di affetti e stati d'animo umanissimi.

Giorgio De Chirico e lo spazio dell'assenza

È interessante seguire l'analisi di Maurizio Calvesi sul percorso formativo e sulle varie influenze che sono intervenute a creare il mondo pittorico e letterario di De Chirico. È chiara, e da De Chirico stessa riconosciuta, l'importanza del simbolismo tedesco con il quale era certamente venuto in contatto nel soggiorno monacense, tra il 1907 e il 1909. In Memorie della mia vita, autobiografia pubblicata nel 1945, egli arriva addirittura a vedere nella pittura monacense la fonte originaria di tutte le avanguardie, attribuendole un ruolo, a nostro avviso eccessivo, nello sviluppo dell'arte degli inizi del Novecento:

La pittura stile Monaco di Baviera, benché non se ne parlasse affatto, aveva sotto sotto influenzato in tutta l'Europa, ed anche in Italia, parecchia gente. (…) Non si può rimproverare ai nostri pittori di essersi lasciati influenzare dalla pittura monachese, poiché la pittura monachese, anzi la secessione monachese, sta alla base di tutte le scuole moderne di pittura, cominciando dalla famigerata École de Paris.

Infatti, è una cosa che però tutti ignorano, la pittura monachese dei primi anni del nostro secolo, trapiantata a Parigi, presentata in modo più abile, sgrassata e condita meglio... aiutata dall'universalità della lingua francese e dall'astuzia dei mercanti parigini, fece nascere a Parigi tutti quei generi che poi dilagarono sul mondo facendo consacrare Parigi 'faro dell'arte moderna'.”2

L'importanza del ruolo della Germania nello sviluppo dell'arte degli inizi del XX secolo è messo in evidenza da Jean Clair che propone di riconsiderare lo sviluppo della storia dell'arte europea del periodo spostando il centro propulsore di tale sviluppo da Parigi all'Europa centrale.

L'apport du mouvement nordique, de l'expressionnism, sont désormais mieux connus. La place de l'Europe centrale a été reconsiderée, non seulement celle de Vienne, mais encore de Munich, de Praga, de Budapest, de Dresde et de villes italiennes comme Milan et Trieste, qui faisaient le lien avec le monde latin. Le sens de l'œuvre d'un peintre comme De Chirico ne pourrait plus ainsi être aujord'hui reduit à ce «merveilleux» que les surrealistes parisiens avaient cru reconnaître en son art, faute d'en connaître suffisamment les sources.”3

Non si può ovviamente non riconoscere il ruolo dell'Europa centrale nell'indirizzo artistico-culturale del periodo in questione, ma non è neanche pienamente giustificato lo spostamento d'attenzione da Parigi all'Europa centrale, senza rischiare di dimenticare gli enormi e fondanti contributi alla rivoluzione del linguaggio artistico del Pstimpressionismo o di figure come Matisse e Picasso, la cui influenza ha senza dubbio travalicato i confini della Francia, arrivando fino alla Russia. Se possiamo essere d'accordo nel considerare l'esistenza di “une première avant-garde, héritière de la Raison et de l'esprit des Lumières, calquée sur le progressisme politique, influencée par le socialisme de Fourier et de Proudhon, telle qu'elle paraît vers 1830”4, come elemento precursore di un certo rinnovamento del linguaggio artistico, nel romanticismo di Delacroix o nel realismo di Courbet, crediamo che il termine avanguardia, più strettamente riferito a un vero e proprio rivoluzionamento del linguaggio, non possa essere applicato che agli artisti che, fra fine Ottocento e inizi Novecento, rompono le convenzioni e iniziano una ricerca linguistica completamente nuova. La definizione di Clair di una “seconde avant-garde”, fondata su un predominio dell'irrazionalismo, è accettabile a patto che si chiarisca cosa si intende con tale termine. La concezione dell'irrazionale in Clair sembra coincidere con l'idea, di secolare memoria, di una dimensione nella quale sarebbero racchiuse tutte le forze confuse e oscure dell'essere umano. L'adesione al freudismo e al suo modo di vedere la realtà non cosciente e non razionale dell'essere umano come perversa è, a nostro avviso, un impedimento nella comprensione dei fenomeni artistici del periodo. Se è vero che, nella necessità di trovare delle giustificazioni alla nascita dei nuovi linguaggi artistici, alcuni artisti si appoggiano a concezioni esoteriche, occultistiche, teosofiche o genericamente religiose, ciò avviene proprio per la necessità di cercare delle spiegazioni “razionali” all'insorgenza, tutta irrazionale, dei nuovi linguaggi che in realtà trovano la loro spiegazione nella realtà interna creativa e sana, non cosciente e non razionale, del singolo artista. Abbandonata la rassicurante mimesi del reale, l'artista può solo cercare in se stesso, trovando finalmente una piena libertà, le forme per esprimere il suo pensiero. Alcuni riescono a vivere questa conquistata libertà con forza e sicurezza, senza cercare giustificazioni se non in se stessi, nel proprio modo di concepire l'immagine e nella propria identità, altri, forse meno coraggiosi, cercano l'appoggio in pseduoteorie che non possono ovviamente più essere quelle scientifiche e positivistiche dell'Ottocento. Il discorso è piuttosto ampio e complesso. Qui ci preme evidenziare che finché si considera l'irrazionale come una forza negativa e oscura, da tenere a bada dietro le sbarre della razionalità, non si comprende a pieno il fare artistico che è, in quanto tale, non razionale per definizione.

Se è poi vero che in Germania gli sviluppi del modernismo possono aver avuto qualche legame con il futuro totalitarismo, bisogna analizzare con molta attenzione le componenti storiche, politiche e sociali di quella specifica realtà. Lo stesso discorso può valere, fatti i dovuti distinguo per la Russia o, anche per l'Italia, dove si sono sviluppati nel dopoguerra regimi totalitari. In realtà ci sembra più opportuno ipotizzare l'azione di forze politiche e culturali, ma anche economiche, che sono intervenute a bloccare quel processo di rinnovamento del modo di concepire la realtà unana scaturito proprio dal mondo dell'arte tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Non condividiamo poi le ragioni con le quali Clair liquida la storia dell'arte, francese del periodo della Prima Guerra Mondiale:

Confiné à des exercices formel bien éloigneés de la réalité du temps, et dont les codes de rébellion n'etaient appréciés que de quelques cercles d'initiés, la peinture française de l'époque, de Picasso et des continuateurs du cubisme aux jeunes peintres de tradition française, opposait une résistance intellectuelle souvent derisoire.” 5

Giudicare come esercizi formali lontani dalla realtà del tempo gli sviluppi dell'arte di Picasso e Matisse e dei tanti altri artisti francesi del periodo è, a nostro avviso, per lo meno un po' troppo sommario e decisamente riduttivo. Come abbiamo detto, il discorso è molto complesso e certamente non unitario.

Le motivazioni per cui la storia dell'Europa, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, ma forse anche dagli anni precedenti che a essa portarono, ha avuto sviluppi catastrofici sono molteplici e intrecciate e, semmai le conquiste artistiche precedenti sono state vittime di tali sviluppi, non certo artefici. Se è poi vero come afferma Clair che “c'est de l'intérieure même des mouvement des avant-gardes que se manifeste le besoin, encor en foi bien avant le déclenchement des hostilités, d'un dépassement ou d'un revirement vers des sources antérieures à la ropture même qu'elles avaient provoquée.”6, tale bisogno va interpretato sempre nel contesto storico nel quale si manifesta e circoscritto all'interno delle ricerche artistiche individuali: gli artisti che hanno vissuto e operato all'interno delle avanguardie avevano personalità e identità diverse e, in alcuni di loro, il bisogno di ritorno o di reazione alla rottura è sicuramente presente.

Altra distinzione necessaria è quella tra il rapporto che ogni grande artista instaura con la storia dell'arte passata e una vera e propria volontà di restaurazione che non ci sembra sia presente con inequivocabile evidenza nell'arte europea prima della guerra. Dire che “le retour à l'ordre n'est pas une conséquence de la guerre”7, significa sottovalutare la catastrofe provocata da un conflitto, per molti aspetti incomprensibile, che si rivela totalmente destabilizzante rispetto alla concezione del mondo e della vita umana precedente. Ricordiamo che nessuna guerra era mai arrivata a provocare un tale di morti. La guerra poi non scoppia per caso, dal nulla, solo come conseguenza dell'attentato di Sarajevo. Certamente le cause, anche se intricate, vanno cercate nel clima diffuso precedente, se non addirittura in assetti ideologici ed economici le cui radici possono essere rintracciate nell'Ottocento. Non è questo il contesto più adatto all'approfondimento del tema, tuttavia, quel che non è sostenibile, pena un tradimento della stessa idea di storia, è che non ci sia un nesso tra “rivoluzione” e “reazione”, dire che il “balancement n'indique pas deux moment successifs” ma che “la postulation est simultanée; il n'y a pas eu d'abord des mouvements révolutionaires siuvis par une réaction de droit: il y a, au même moment, l'un et l'autre mouvement.”8, significa negare che la storia è fatta dagli uomini e dalle loro idee e azioni e non da vaghe e astratte, o metafisiche spinte. Dire che “la «réaction» en art ne peut qu'annoncer et préparer la réaction en politique.”9 è un'idea riduttiva delle relazioni che intercorrono tra l'artista e la sua cultura. E se è vero che in alcuni momenti l'arte si è posta esplicitamente il compito di trasformare il mondo, ciò è avvenuto soltanto quando essa era sottoposta a un'ideologia e a un potere politico totalitario già affermatosi: in tutti quei casi in cui possiamo parlare di “arte di stato”. Ma i migliori artisti non si sono mai assoggettati a tali condizionamenti e hanno sempre cercato la propria individuale e libera espressione, pur nella dialettica a volte aspra con il potere politico. Se poi il loro fare è riuscito a volte a cambiare, più che il mondo, l'idea comune della realtà umana, lo ha fatto in senso positivo, grazie alla potenza delle loro immagini che proponevano un pensiero nuovo e diverso. Certo, l'arte è un'attività umana strettamente legata alla storia e gli artisti proprio per la loro accresciuta sensibilità, riescono a cogliere qualcosa che “è nell'aria” e che all'uomo comune forse sfugge. Il “ritorno all'ordine”, definizione ambigua e per certi versi spiacevole, è un momento di ripensamento che non ha in tutti gli artisti l'aspetto di una “reazione”. Per alcuni è un ripiegamento su se stessi, per altri, di fronte alla sconfitta dell'idea di una cultura e di un'arte europee, così come andavano delineandosi negli anni dieci, è la ricerca delle proprie radici storiche e artistiche nazionali, segnata dalla delusione di entusiasmi di rinnovamento sconfitti dalla politica e dalla distruzione della guerra, e non da un fallimento interno all'arte stessa. All'interno di questa complessa dinamica ogni artista compie le sue scelte: qualcuno, per una propria propensione interiore, crederà nel fallimento dell'uomo e proporrà il vuoto; qualche altro, più ottimista nei confronti della realtà umana, troverà invece il coraggio di vedere ancora la possibilità di una creatività che parli dell'umano; altri parleranno della sofferenza e del dolore di una perdita. Lo stesso Clair cade in contraddizione quando afferma, questa volta a ragione,

Le fait est là: les annéses dix auront multiplié les expériences et les transgressions le plus étonnantes. Convanincues que le progrès était un fait acquis dans toutes le domains de l'esprit, elles auront fait de l'art le champ d'un bataille où, du cubisme au futurisme, du fauvisme à l'expressionnisme, les «avancées» formelles coquéraient chaque jour de nouveaux fronts. La guerre de 14, avec ses vrais champs de bataille, et ses vrais tranchées, a douché les enthousiasmes – et c'est ainsi au coeur du même conflit, dès 1916, qu'on voit, chez Apollinaire, chez Picasso lui-même, le démiurge, naître les prodromes de ce grand appel au calme et à la pacification. Foin des trouvailles, il s'agit de reconstruire un monde, et comment le reconstruire autrement que sur des bases solides et des assis durables: retour au passé, regard rétrospectif sr l'art des Anciens, histoire de se rassurer, de se réconforter, de reprendre confience?”10.

È dunque la guerra il vero motivo del rappel a l'ordre. Non possiamo, tuttavia, inserire la figura poliedrica di Picasso con molta semplicità nel “ritorno all'ordine”: gli anni della guerra rappresentano per lui un'oscillazione tra un ritorno alla figurazione classica (si veda il Ritratto di Olga in poltrona o l'Arlecchino del 1917) e la continua sperimentazione e innovazione (sono sempre del 1917 le scenografie di Parade o il dipinto l'Italiana).

Parlando di De Chirico, il suo legame con la cultura tedesca e il contemporaneo e conseguente antifrancesismo, provocato in parte dalla aspra polemica con i surrealisti, in parte forse per un'idea pittorica decisamente opposta a quel che si era sviluppato e andava sviluppandosi in quegli anni a Parigi, non sono semplicemente un caso o una contingenza biografica. Una sorta di affinità elettiva lo lega a quella cultura, che mostra ancora un legame vivo con il romanticismo e con il simbolismo e nella quale nascerà quel realismo magico che avrà non poche affinità con la metafisica dechirichiana.

Il contatto di De Chirico con l'opera di Böcklin e con l'ambiente tedesco è certamente avvenuto negli anni monacensi, ma l'influenza dell'artista tdesco era già presente nella Firenze inizio secolo, città nella quale il pittore tedesco soggiornò e operò a lungo, morendo a Fiesole nel 1901.

Sempre a Monaco de Chirico conobbe probabilmente anche l'opera di Nietzsche, la cui eco è fortemente presente nelle sue dichiarazioni, anche se in una elaborazione piuttosto superficiale. Non è tuttavia chiaro se la lettura del filosofo tedesco sia avvenuta a Monaco o a Milano dopo il 1909, quando, in un periodo di malattia, l'artista dichiara nella sua autobiografia di dipingere poco e di dedicarsi a letture filosofiche11. Sappiamo, sempre dalle sue stesse dichiarazioni, che a Milano dipinse “quadri di sapore boeckliniano”12. Ma l'idea di una pittura metafisica, come abbiamo detto, ha avuto origine a Firenze:

A Firenze la mia salute peggiorò...avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d'autunno, di pomeriggio, nelle città italiane. Era il preludio alle Piazze d'Italia dipinte un po' più tardi a Parigi e poi a Milano, a Firenze e a Roma”13.

In realtà, come approfondisce Calvesi, la ricostruzione è più complessa e la scoperta di Nietzsche sarebbe legata a un viaggio a Roma dell'ottobre 1910. Certo è che L'enigma di un pomeriggio d'autunno è un'immagine in un certo senso nietzschiana:

Nello sfondo... s'intravede il mare con il veliero, che è immagine nicciana, proprio dell'ignoto e dell'enigma con cui si confronta il pensoso superuomo.”14

Il riferimento a Nietzsche è evidentemente circoscritto agli ultimi scritti, lo Zaratustra o l'Ecce Homo, che rappresentano la fase più esaltata del pensiero del filosofo tedesco, scritti poco prima dell'accesso di pazzia che avverrà proprio a Torino, città, a parere di De Chirico, metafisica per eccellenza. Tuttavia questa parziale lettura di Nietzsche, legata in particolare a un'idea di superuomo spogliata della carica vitalistica propria del filosofo tedesco, è indicativa dell'indole dechirichiana ed è forse una spia dell'atteggiamento dell'artista nei confronti di una dimensione di vitalità e desiderio che nella sua produzione sembra essere completamente assente15.

Anche lo spunto lirico-profetico del 'pomeriggio d'autunno' discende... dalla stessa lettura dell'Ecce homo, senza però che nulla dei contenuti più sostanziali del dissacrante pensiero di Nietzsche venga accolto né qui, né in altre pagine di De Chirico. La sospensione dechirichiana, anzi, interrompe e nega quel flusso vitale che Nietzsche esalta. Egli dunque proietta nelle letture di Schopenhauer e di Nietzsche sue convinzioni ed inclinazioni poetiche, maturate anche in altro clima culturale.”16

L'analisi di Calvesi prosegue evidenziando la forte influenza di Papini e della cultura fiorentina del tempo sulla formazione di De Chirico, sia per quanto riguarda la particolare lettura del pensiero di Schopenhauer e di Nietzsche, a volte sovrapposti e confusi, ma anche per il frequente riferimento alla metafisica presente nei suoi scritti.

Un'altra influenza molto profonda sembra essere stata quella del pensiero di Vico, sia su Papini che su De Chirico, per quell'aspetto legato a una mitica esistenza preistorica dell'uomo, con il suo animare il mondo naturale di esseri misteriosi, e del ruolo giocato in essa dalla profezia e dalla poesia. Particolarmente calzanti sono anche, negli scritti di Calvesi, i riferimenti alle possibili influenze letterarie dei Canti orfici di Dino Campana e, ancor più, dei testi di Gabriele D'annunzio, nei quali egli ritrova precisissimi riferimenti per la ricostruzione dei primi dipinti metafisici di De Chirico17. Dunque, la pittura metafisica non nasce dal nulla, ha i suoi precisi riferimenti culturali e filosofici, legati in modo particolare all'ambiente fiorentino degli Anni Dieci.

È interessante notare come, a partire dal 1910, assistiamo in Italia, da un lato alla nascita del futurismo, dall'altro a quella della pittura metafisica. Se il futurismo nasce e si sviluppa all'interno del clima delle avanguardie, la germinazione della metafisica è il primo segno di quel ritorno all'ordine che vedrà i suoi sviluppi nel dopoguerra. Ambedue le correnti artistiche si pongono come rinnovamento dell'arte contemporanea italiana, ma, mentre il futurismo si riallaccia alle coeve ricerche europee, la metafisica di De Chirico trae origine da quel clima culturale, che cercava la sua opposizione al positivismo attraverso una riscoperta di valori idealistici e metafisici, opposti al futurismo stesso. Non è un caso che il riferimento alla filosofia di Nietzsche nel futurismo, laddove presente, insisteva proprio sul suo carattere vitalistico. Della filosofia di Nietzsche si condannava apertamente l'aspetto negativo, considerato decadente, proprio quello che affascinerà De Chirico. Anche il futurismo sembra preferire il Nietzsche dello Zaratustra, che è però per i futuristi quello che si scaglia contro quella tradizione che De Chirico vorrà poi recuperare.

Direi che il rapporto con Nietzsche non va oltre una generica acquisizione della pars destruens della sua filosofia... Se si esclude qualche accenno al tema del rapporto arte-menzogna... di Nietzsche interessa a Marinetti la 'tonalità'...

Molto più facile sottolineare i punti in cui il futurismo dissente radicalmente dal pensiero nietzschiano: l'idea dell'eterno ritorno... cui il futurismo oppone il monstrum della semiosi infinita...; il rapporto con il classico. Quest'ultimo punto è decisivo: Nietzsche oppone al Moderno un poderoso, eroico Nachleben (Sopravvivenza) della classicità, rivissuta, appunto, in chiave tragica – ora è proprio la tragedia che il futurismo intende superare!”18

La classicità, ripudiata dai futuristi in nome di una totale modernizzazione dell'esistenza, diventerà, dal 1919 circa, l'aspirazione dechirichiana con il suo ritorno al mestiere e al museo19. Una classicità, ovviamente, rivisitata in senso moderno, che del classico, più che le immagini, intende riproporre un'atmosfera a suo modo ideale. D'altro canto nell'Italia del dopoguerra saranno in molti a auspicare un ritorno al classicismo, dagli artisti ai critici agli storici dell'arte del tempo.20

L'analisi di Calvesi sulla cultura pittorica di De Chirico e sulle radici della sua formazione pongono l'accento, come abbiamo detto, sull'influenza del simbolismo tedesco, ma allo stesso tempo la limitano.

Tuttavia alcuni aspetti, e tra i salienti, del linguaggio pittorico di De Chirico non sembrano in nessun modo ricollegabili al simbolismo tedesco, né alla lezione francese.

Intendo soprattutto due elementi: il telaio spaziale, con il singolare impiego della prospettiva; e l'uso davvero misterioso del colore, l'intensa timbratura – mai decisamente squillante o trasparente – dei piani cromatici, sempre intrisi anzi d'una certa cupezza, come quegli straordinari verdi e rossi che, quand'anche in luce, non splendono né propriamente contrastano con le ombre di cui, benché solari, sembrano echeggiare una riposta qualità.”21

Decisiva per Calvesi, sul colore dechirichiano, sembra essere stata l'influenza dell'opera di Paul Gauguin, presente nella Mostra dell'impressionismo francese tenutasi a Firenze nel 1910, promossa da Ardengo Soffici. Va tuttavia aggiunto da un lato lo studio dell'antico, dall'altro quello della pittura veneta (Tiziano, Sebastiano dal Piombo, Giorgione), dalla quale deriverebbe, sempre secondo Calvesi, la particolare intonazione del colore dechirichiano.

Quello studio della pittura italiana, che De Chirico menziona a proposito della sua svolta dopo la Metafisica, quando inseguì il 'ritorno al mestiere', dovette in realtà cominciare assai prima, da subito, penso che proprio la tradizione veneta di Tiziano, Sebastiano dal Piombo, Giorgione (…) sia fonte dell'intonazione 'bassa' del colore di De Chirico; da quel 'tonalismo', egli può aver tratto l'insegnamento che, per creare un'atmosfera ( e De Chirico vuol proprio creare atmosfere), nessun colore va lasciato interamente sgusciare dalla rete di reciproche dipendenze tra l'ombra e la luce. Il puro colore della nuova pittura conseguita all'impressionismo è così condizionato e riformato con il sottoporlo alla segreta legge dei veneti.”22

Per quanto riguarda le particolari prospettive dechirichiane, Calvesi rintraccia la loro fonte nella pittura toscana del Trecento, in particolare in Giotto e, nell'analisi dell'Enigma di un pomeriggio d'autunno, coglie una particolare fusione tra la visione reale della piazza di Santa Croce a Firenze, con la statua di Dante “vista da dietro, come uscendo dalla chiesa”, e l'architettura dipinta nell'affresco di Giotto, conservato nella chiesa stessa, Le stimmate di San Francesco della cappella Bardi, o di altri dipinti trecenteschi23.

Calvesi sottolinea poi come l'idea di un ritorno ai giotteschi fosse stata suggerita da Ardengo Soffici in un articolo apparso nel settembre del 1910 su “La Voce”24 al quale sembra prontamente rispondere De Chirico, in particolare nei primi due dipinti metafisici, L'enigma di un pomeriggio d'autunno e L'enigma dell'oracolo, nei quali compaiono le “volute 'sproporzioni', che Soffici aveva appena esaltato nei primitivi, e che De Chirico non ripeterà più”, avviandosi verso quella particolare ricerca prospettica che contraddistingue la sua spazialità metafisica.

E anche questa volta, tanto la morfologia delle semplici arcate, o persino di alcune delle fantastiche torri, quanto le modalità proiettive del loro 'goffo' e arcano impalcarsi nello spazio, risultano... derivate dallo stesso repertorio di primitivi, dalla pittura del Trecento toscano.”25

Proprio al senso metafisico della pittura di Giotto è dedicato lo scritto di De Chirico, Il senso architettonico della pittura antica, del 1920, in un'epoca in cui il riferimento ai primitivi era ormai di dominio allargato nel mondo dell'arte italiana, basti pensare a Carrà che già nel 1915, in una lettera a Soffici, si riferiva a Giotto, o alla sua Parlata su Giotto apparsa nel 1916 su La Voce. In Carrà, tuttavia, il ritorno a Giotto era inteso in senso molto diverso, quasi opposto a quello di De Chirico: si trattava di rifiutare la prospettiva rinascimentale perché ritenuta troppo astratta e intellettuale e di ritrovare la semplicità e la purezza formale dello spazio giottesco.

Anche nel caso di Giotto, come in molte altre occasioni, siamo di fronte a un'interpretazione da parte di De Chirico che vorremmo definire a-storica, che va in un senso completamente opposto rispetto all'effettivo ruolo giocato dall'opera di Giotto e dei suoi seguaci all'inizio del Trecento. La sua opera ha avuto una fondamentale e indiscussa importanza storico-artistica per la riscoperta di una visione realistica dello spazio, che riportava l'uomo nel suo ambiente di vita e allontanava la rappresentazione da quella dimensione metafisica propria della concezione religiosa medievale. Più calzante è l'interpretazione che dell'artista del Trecento dà Carrà, poiché coglie, nelle sue ingenuità e nella semplicità della rappresentazione, quegli elementi di realismo “semplificato”, non inquinato da concezioni razionali e intellettualistiche rinascimentali. Ma, come si evince da tutti gli scritti di De Chirico, il metafisico piega spesso la storia verso i suoi interessi teorici personali.

Anche per quel che concerne l'influenza di Gauguin riconosciuta da Calvesi, non ci sarà, ovviamente, alcun riconoscimento da parte di De Chirico, anche se egli affermerà di essere stato “toccato... dal senso metafisico” della sua arte e dal fatto che il francese “insisteva molto sul senso misterioso”26, per aggiungere dopo varie considerazioni:

Io non posso ritenere Gauguin, come molti fanno, un grande artista. Egli non fu nemmeno, a mio giudizio, un pittore d'ingegno. L'ingegno esige una natura normalmente equilibrata, una educazione disciplinata e rivela sin dall'inizio le qualità predominanti e caratteristiche dell'artista. Ora se noi esaminiamo la pittura di Gauguin anteriore alla sua partenza per Tahiti, vi ritroviamo dei mediocrissimi saggi d'impressionismo: ritratti, paesaggi, nature morte; pitture deboli di materia e di forma, vagamente stilizzate.

L'opera che egli produsse a Tahiti è di poco migliore... le sue pitture non erano più contaminate dalla influenza dei contemporanei, e per quanto deficienti e poco stabili, esse schivano le volgarità correnti e si presentano in una veste che le rende tollerabili...

Gauguin, come tanti altri, fu un diretto prodotto della nostra epoca; epoca scema e confusa quanto mai.”27

Nessun riferimento è presente agli evidenti prelievi che egli fa dall'iconografia gauguiniana: basti citare il famoso casco di banane presente nel Sogno trasformato o nell'Incertezza del poeta. D'altro canto è molto difficile ritrovare negli scritti di De Chirico riconoscimenti verso altri artisti, fatta esclusione per Raffaello, Poussin, Lorrain e pochi altri. Le parole di elogio più roboanti sono dedicate all'arte classica:

L'œvre vraiment profonde sera puissée par l'artiste dans les profondeurs les plus réculées de son être; là nulle rumeur de ruisseau, nul chant d'oiseau, nuil bruissement de feuillage ne passe; le gotique et romanticisme disparaissent; et à leurs places, apparaissant les dimensions, les lignes, les formes de l'éternité et de l'infini: c'est ce sentiment révelateur qui guide les architectes de la Gréce; c'est le même sentiment qui créa l'architecture romaine; ce pourquoi je rois que les édifices grecs et tous ce qui on été créés d'après leur principe quoique un peu transformé sont ce qu'il y a de plus profond en art.”28

Il richiamo continuo nei molti scritti di De Chirico è all'immobilità, al totale silenzio, in nome dell'eternità e dell'infinito; un infinito non inteso come le infinite possibilità dell'essere, di brunina memoria, ma come immobile, eterno, immodificabile. De Chirico rifiuta continuamente tutto ciò che è espressione di mutamento e trasformazione, tutto ciò che, a nostro avviso, è specificamente umano, poiché l'immobilità è raggiungibile dall'uomo solo nella morte e a ben vedere neanche lì: il corpo senza vita di un uomo, quel che rimane dopo la morte, è destinato a ulteriori cambiamenti, anche se, a questo punto, soltanto chimici! Nella morte quel che scompare realmente è la vera realtà umana, che è identità psichica, quella realtà fatta fondamentalmente di cambiamento e continua capacità di trasformazione.

In questo contesto ci sembra particolarmente interessante analizzare il modo in cui De Chirico rappresenta lo spazio, uno spazio che, sia negli esterni che negli interni, è protagonista nella sua opera forse ancor più degli oggetti che in esso vengono collocati e che mantiene un aspetto caratteristico.

Nel momento in cui cade l'idea che l'arte debba essere riproduzione-rappresentazione del mondo, uno dei primi elementi che viene messo in discussione, come abbiamo detto, è proprio lo spazio. Dal postimpressionismo in poi, tutti gli artisti hanno fatto i conti, ognuno a suo modo, con la necessità di creare uno spazio che fosse specificamente pittorico. Sia in chi conservava tracce del figurativo che in chi affrontava la ricerca di una dimensione “astratta” dello spazio stesso, si trattava sempre di una immagine mentale dello spazio. Pensiamo, solo per citare le punte dell'iceberg, alle ricerche di Cèzanne, al suo colore-volume che rende lo spazio profondamente sensibile; o alla linea-colore di Van Gogh, che imprime allo spazio delle sferzate di prorompente vitalità; o ancora alla rivendicata bidimensionalità della pittura dell'area nabis e di Gauguin; per non parlare della rivoluzione cubista, nella quale lo spazio cerca una fusione con la dimensione del tempo per creare un'immagine dello spazio stesso non più come sfondo neutro, ma intrisa della dimensione del movimento propria dell'umano. Anche per i Fauves, e per Matisse in particolare, lo spazio gioca il suo ruolo divenendo pura sensibilità del colore. Di alcune di queste precedenti ricerche, a loro modo, si nutrirono i futuristi, e vi aggiunsero i loro tmodi specifici: la velocità del moderno, la complementarità, la molto polemizzata simultaneità29. La rappresentazione dello spazio, dunque, è un fattore centrale nella pittura nel passaggio dall'Ottocento al Novecento.

De Chirico sembra ignorare completamente quel che sta avvenendo in Europa, ma anche in Italia, e riparte da uno spazio definito classicamente per arrivare alle prospettive sghembe delle Piazze d'Italia e agli interni altrettanto stranianti che iniziano ad apparire intorno al 1916. Egli cancella con una spugna tutte le elaborazioni che si erano compiute e si andavano compiendo in quegli anni nell'arte europea proprio intorno al problema della rappresentazione spaziale.

Non è un caso che la pittura metafisica nasca a Firenze, città rinascimentale per eccellenza culla della prospettiva brunelleschiana, anche se poi avrà i suoi sviluppi a Parigi.

La prospettiva quattrocentesca, imponendo il punto di vista unico e centrale, cioè immobile, scolla dal tempo lo spazio bloccandolo in una forma assoluta, che è immagine di una trinitaria ratio comune a Dio e all'uomo.

De Chirico sospende, deforma e dissocia con accorgimenti sottili l'unità prospettica colorando di assurdo la trascendente elevazione dei modelli rinascimentali. Sottratto a questa unità e a questo significato, lo spazio fisico e atemporale di de Chirico è scenario del nulla, costruzione del vuoto aberrante.”30

La rivoluzione dechirichiana consiste proprio nella creazione di questo particolare spazio, basato sulla costruzione di veri e propri inganni prospettici che, eliminando l'astrazione del punto di vista unico, creano un'altra, e forse ancor maggiore, astrazione, qui intesa non come ab-traere, bensì come invenzione di qualcosa di strano ed estraneo.

Come afferma Jean Clair, tutto il realismo degli Anni Venti e Trenta è un “ritorno”, ma l'aggettivo “magico” ad esso associato segna una distanza, un “residu de ténèbre et hantise que toute figuration désormais comporterait”31. Il primo a esibire un intenzionale ritorno alla prospettiva rinascimentale dove tuttavia è evidente lo distanza dal senso che essa aveva nel passato, è stato proprio De Chirico.

De Chirico, dés 1914, reintroduit ainsi dans la peinture un dispositif perspectiviste que tous le mouvements de l'avant-garde, depuis 1905, s'étaient ingénieés à miner comme une taupinière, s'il reinscrit à la surface de la toile l'illusion du cube scénique, de sorte à pouvoir y disposer, à nouveau, des objets, des solides et des ombres, le fait est que ces objets y seront comme dépaysés, étrangers à eux-même et etrangers entre eux, murés chacun dans une solitude sans issue et comme incertain de leur existance. (…) Tout objet n'est plus ici objet de reconnaissance: il devient objet de stupeur.”32

La creazione di uno spazio straniante, che può essere fatta risalire già all'Enigma di un pomeriggio d'autunno, prosegue in realtà in tutta l'opera di de Chirico: in tutte le opere metafisiche come nei Trofei, nei Cavalli, nei Gladiatori, fino ai Bagni misteriosi o ai Mobili nella valle. La cifra caratteristica di De Chirico sarà sempre la definizione di uno spazio in contrasto con gli oggetti in esso collocati, anche se nella fase propriamente metafisica questo aspetto è certamente più incisivo. Si tratta di spazi volutamente disumanizzati, in essi la presenza umana è inizialmente o totalmente esclusa o ridotta a piccolissime figure e ombre inquietanti. Al posto dell'essere umano comparirà la statua, come suo doppio pietrificato, e dal 1914 il manichino, emblema della totale disumanizzazione dell'uomo; figure articolate da meccanismi rigidamente geometrici, spesso sorretti da intelaiature di assi e squadre (Ettore e Andromaca, Il Grande metafisico, del 1917, solo per fare qualche esempio), come a sottolineare l'impossibilità di un qualsiasi movimento spontaneo e autonomo, e dunque umano.

È singolare sottolineare come i manichini facciano la loro apparizione dopo la mostra parigina in cui Boccioni aveva presentato i suoi polimaterici, in almeno uno dei quali, oggi distrutto, comparivano 'sostegni' simili alle righe e alle squadre che incantarono Apollinaire nei quadri di De Chirico”33

Tuttavia i polimaterici di Boccioni partivano da un'idea completamente opposta rispetto a quella di De Chirico: essi volevano essere rappresentazione delle compenetrazioni esaltate dal futurismo (ricordiamo qui la famosa frase del Manifesto della pittura futurista: “I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano...”), di quell'incessante intrecciarsi del movimento della vita assolutamente estraneo a De Chirico. Se una pallida assonanza può esserci è forse soltanto nell'idea di meccanismo che tuttavia non era riferita dal futurismo all'essere umano. Sappiamo quanto lo spazio futurista sia pregno della presenza del movimento: agitato da quelle linee-forza che lo attraversano e lo fondono alla velocità, emblema stesso della modernità; ma anche espressione, in particolar modo in Boccioni, di spinte emozionali interiori, proprie dell'essere umano che vi è immerso, che si riverberano con una forza quasi magica nell'ambiente.

Calvesi interpreta la figura dei manichini come evocazione di “un'umanità arcaica e originaria, veggente, eroica, abitatrice di tempi lontani e misteriosi e in questo senso, certo, 'disumana'; spaesata, al di sotto e al di sopra, al di qua e al di là dell'umano...”34. In realtà, il carattere più evidente dei manichini metafisici dechirichiani a noi sembra essere quello della dis-umanità, nel senso di uno svuotamento dell'essere, più che quello dell'evocazione delle figure mitiche e primordiali di Vico che, al contrario, conservano una loro vitalità primigenia. Quest'ultimo aspetto può essere vagamente colto come lontana allusione nelle opere della fine degli anni Venti, nella serie dei Gladiatori, con i loro volti inespressivi e quasi spaesati nella lotta, in un dipinto come Cavalli con Dioscuri in riva al mare, in cui l'uomo semidisteso sulla sabbia ha l'aspetto di una statua che sta appena riprendendo vita e guarda verso il mare dove si stanno dirigendo i cavalli, come a indicargli una via per la ricerca di una vitalità perduta (anche se dietro ai cavalli, al centro del dipinto, è sempre presente una figura-manichino, quasi memento di un'esistenza passata); o ancora nei Facitori di trofei, che appaiono come manichini rivitalizzati.

Tornando all'analisi delle strane prospettive dei dipinti della pittura dechirichiana, l'artista stesso ci dà alcuni spunti di ricerca. A proposito dei Mobili in una valle, egli racconta di come sia nata l'idea, in un pomeriggio parigino, davanti al negozio di un rivenditori di mobili:

A l'atmosphère des méubles dépaysés correspond celle des temples et de coins de nature installées dans des chambres. J'ai représenté sur une plancher, sous un plafond bas, des temples grecs entourés de roches et de fountains, avec des routes où demeurent les traces des chars. Que le plafond de la chambre soit bas est très important, car l'atmosphère métaphysique de l'art grec est dû en grande partie à ce sens des justes limites qui se retrouve dans les lignes du paysage et meme dans l'air: en Gèce, le ciel donne moins que dans les autres pays l'impression de l'infini. On s'imagine parfois qu'on pourrait le toucher avec la main; c'est ce qui explique dans la mythologie grecque cette familiarité antre le dieux et les humaines (…)

C'est le contraire de ce qui se passe dans le Nord...”35

È evidente in questi passi l'eco del Worringer di Astrazione e empatia, testo pubblicato in Germania nel 1907, conosciuto negli ambienti artistici, non soltanto tedeschi e al quale De Chirico in più punti allude. De Chirico tuttavia simpatizza, al contrario di quel che accade nel testo di Worringer, verso l'empatia, verso la chiarezza e la serenità dell'arte greca più che verso l'astrazione: il gotico è per De Chirico qualcosa di assolutamente lontano dalla vera e pura arte. C'è tuttavia nelle sue affermazioni una contraddizione rispetto alle proprie opere: egli rende astratta l'atmosfera dei suoi dipinti e proprio quei “giusti limiti” presenti nel paesaggio greco, antidoto contro l'angoscia dell'infinito, diventano nella sua pittura quell'infini, definito estraneo all'immaginario ellenico, dando la sensazione di qualcosa di intoccabile e irraggiungibile proprio perché privo di una pur minima dimensione umana; o, nel caso di alcuni dipinti di interni, dei limiti soffocanti e opprimenti, in uno spazio che tende sempre a contraddire la dimensione umana.

Emblematicamente il manichino va a sostituire o raddoppia la statua, presente nelle prime opere metafisiche: dietro la tenda nell'Enigma dell'oracolo, nella piazza della Melanconia del 1912, nel Sogno trasformato del 1913, nell'Incertezza del poeta del 1913, o ancora nell'Enigma di una giornata del 1914, con il suo omaggio a Cavour e al Risorgimento italiano. Il manichino si presenta dunque come superamento della statua, quasi essenza o in alcuni casi doppio di essa, nello stesso momento in cui le prospettive si fanno più ardite e sghembe, in una rappresentazione dello spazio sempre più astratta e impossibile, sempre più metafisica appunto. Si arriva poi all'emblematico abbraccio tra il manichino e la statua del Figliol prodigo del 1922, nel quale tuttavia, e sorprendentemente, lo spazio, architettonico e naturale, torna a una definizione quasi rinascimentale, con un villaggio sulla cima di una collina sulla sinistra e un edificio dalle proporzioni classiche sulla destra. Sono gli anni in cui viene invocato il ritorno al mestiere, dal quale prende il titolo il saggio pubblicato sulla rivista Valori plastici, dopo le “baldorie coloristiche che da quasi mezzo secolo infieriscono l'Europa”36. E il saggio rivela, nella chiusura, la sostanziale consonanza del pensiero di De Chirico, e della sua arte, con il clima del tempo. Dopo un'accanita invettiva contro il futurismo egli afferma:

Ora tutto tramonta. Siamo alla seconda metà della parabola. La politica insegna. Gli isterismi e le cialtronerie sono condannati dalle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia politiche, letterarie o pittoriche. Col tramonto degli isterici, più di un pittore tornerà al mestiere, e quelli che ci sono già arrivati potranno lavorare con le mani più libere e le loro opere potranno essere meglio apprezzate e ricompensate.

Per mio conto sono tranquillo, e mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d'ogni mia opera: Pictor classicus sum.”37

Nonostante il diffuso “qualunquismo... pesantemente affiorante nella sua tarda produzione, e sia nella pittura, sia nelle dichiarazioni, ma da sempre latente”38, in dichiarazioni come questa è chiara la sua volontà di riportare tutte le cosiddette isterie a un ordine che egli chiama “mestiere”, ma che ha in sé l'allusione a un'ordine politico. De Chirico, nel suo volontario e narcisistico isolamento dalla realtà politica del tempo, sembra effettivamente non schierarsi mai né con il potere costituito né contro di esso, ma le sue dichiarazioni si allineano al clima ufficiale.

Il suo ritorno al mestiere è conforme al generale ritorno all'ordine di quegli anni, ma a ben guardare, a nostro avviso, tutta la pittura di De Chirico sembra porsi come scopo un ritorno. Potremmo dire che essa si fonda sulla negazione di tutta la rivoluzione operata nel linguaggio dell'arte dai primi del Novecento in poi. De Chirico è un anticipatore, già nel 1910, di quel ritorno che coinvolgerà tutta l'arte degli anni Venti e che troverà allora giustificazione nel clima storico venutosi a creare dopo i disastri della guerra. Egli è forse uno di quegli artisti a cui allude Clair quando afferma che nell'avanguardia erano già presenti i semi della restaurazione successiva, anche se l'appartenenza di De Chirico all'avanguardia appare almeno ambigua. Il personalissimo fenomeno dechirichiano del 1910 sembra reagire negativamente proprio a quanto di più avanzato il linguaggio artistico andava creando e gli spazi che egli rappresenta in quel periodo sembrano voler esattamente rappresentare quella tabula rasa.

La pittura metafisica di De Chirico viene inserita dalla storiografia artistica nel generale clima delle Avanguardie per aspetti che sono indubbiamente innovativi, a volte però confusi con la ricerca, tipicamente surrealista, del senso nascosto dietro e sotto le apparenze, travisando in tal modo, così come forse aveva fatto André Breton, il vero significato della metafisica dechirichiana, che è appunto meta-fisica, cioè espressione di qualcosa che non è dietro e dentro le cose, ma al di sopra di esse. La posizione dell'arte di De Chirico è un'erma bifronte: da un lato viene considerata come una grande innovazione linguistica, dall'altro segna l'inizio di un ritorno a un nuovo classicismo.

De Chirico compie in quegli anni un'operazione complessa che, come egli stesso afferma in più occasioni, rinnega molta dell'arte a lui contemporanea o di poco precedente:

Con Manet è cominciata la decadenza. Malgrado il talento che si sente ancora nelle opere di questo pittore noi, nei suoi quadri, vediamo già il destino che la pittura subirà dopo di lui. Più tardi ancora la qualità della pittura comincia a essere completamente sostituita dalla decorazione, dall'invenzione e dalla falsa bellezza.

(…)

Nell'altro movimento, il modernismo, di cui il padre è Cèzanne, si è cercata la novità, si è creduto di poter sostituire la grande pittura (i pittori non essendo più capaci di farla) con l'invenzione.

Così sono nati il cubismo, il fauvismo, l'espressionismo, il surrealismo e la pittura astratta. Ma di tutti questi fenomeni, solo il cubismo, che Picasso ha creato sfruttando molto i quadri e i disegni di Cèzanne e un po' anche le sculture negre, il solo cubismo, diciamo, che avuto del successo moralmente e commercialmente ed ha influito sull'architettura, il mobilio, l'arredamento...

In quanto a Cézanne, origine del cubismo, egli è erroneamente considerato un grande pittore. Il lato interessante in lui è solo quel curioso fenomeno, subentrato in un certo momento della sua vita, dopo che egli era stato per qualche tempo un mediocre pittore ottocentesco, quel curioso fenomeno, diciamo, anormale, ma pur suggestivo, d'uno strano modo, faccettato, spoglio e geometrico di vedere gli uomini, la natura e le cose. Del resto la cubificazione delle forme nel disegno ed il lato suggestivo che tale cubificazione crea, non sono cose nuove. Basta guardare i disegni cubisti di Durer e quelli di Paolo Uccello39

È questo solo un esempio tra i tanti rintracciabili negli scritti di De Chirico, dai quali emerge, confermando la nostra tesi, una generale e generica condanna di tutta l'arte contemporanea. Lo sguardo di De Chirico è rivolto soprattutto a esempi del passato, ma anche qui le scelte, a volte contraddittorie, sono spesso compiute in negativo. E così il Seicento viene considerato

il secolo meno italiano della nostra pittura, il secolo che segnò il principio di quella decadenza di cui oggi vediamo le funeste conseguenze. (…) Nel Seicento vediamo spegnersi nei pittori ogni principio di rivelazione e di scoperta, ogni attenta curiosità per il mondo che li circonda e subentrare invece una specie di vigliaccheria tanto riguardo a ogni ricerca tecnica o di mestiere quanto riguardo a ogni contenuto spirituale dell'opera.”40.

In particolare le frecce del metafisico si scagliano contro Caravaggio:

Caravaggio è il pittore che gl'inneggiatori al Seicento tiran in ballo più spesso e volentieri, cercando di trovare nella sua pittura una giustificazione all'esagerato panegirico che fanno di quella dei suoi più o meno contemporanei.

A noi non sembra che Caravaggio meriti tante lodi: in un secolo in cui il senso del mestiere non era totalmente perduto come lo è oggi, non è un miracolo vedere nescere dei quadri come quelli lasciatici da Michelangelo Merighi; e, se si guarda un po' da vicino la sua oper, si vede che, eccetto il Narciso della Galleria Corsini (pittura d'innegabile potenza lirica nel colore), essa lascia molto a desiderare... In quanto poi alle sue tanto decantate Suonatrici noi non ritroviamo in esse che il pallido calco d'un intimità borghese d'origine fiamminga e che ha qualcosa di stonato e di falso interpretata com'è da un italiano bilioso, spadaccino ed errabondo, inquieto, scontento e jellato fino all'osso, quindi uomo antiborghese per eccellenza”41

Certo, in tutti gli scritti di De Chirico è evidente la sua volontà di dissacrazione e, nello stesso tempo, quel tanto di onnipotenza di giudizio e narcisismo che gli sono propri (non è senza significato che del Caravaggio egli riesca ad apprezzare soltanto il Narciso!), ma non ci sembra un caso che i suoi strali si abbattano in particolar modo su alcune figure di artisti che, nella loro opera e nella loro vita, hanno espresso tutta quella passione e tutti quegli affetti che, al contrario, De Chirico ha deliberatamente allontanato, certamente dalla sua arte, non sappiamo se anche dalla sua vita.

Nel 1918, in occasione della mostra a Roma in cui espone con Soffici e Carrà, De Chirico darà l'annuncio della nascita di una nuova arte, “un'arte severa e celebrale, ascetica e lirica che dalla magna terra ove nasce succhia lo spirito migliore, quello spirito che alcuni grandi costruttori italiani (non parlo solo di pittori) seppero stampare nell'opera loro come un bollo indelebile”, per passare poi ad attaccare il cubismo francese,

oggi sorpassato, tanto per la forma quanto per lo spirito, dalla nuova arte italiana. La deformazione degli oggetti, base prima del cubismo crea uno stato psico-sensorio che, nella bilancia dei valori eterni, non pesa più, metafisicamente parlando, delle elucubrazioni fantasiste d'un preraffaellita...”.

Al contrario, la nuova pittura metafisica,

sorta ora per opera di pochi artefici italiani, si libera da ogni vincolo e apre la via ai più nuovi lirismi, mantenendosi, in quanto alla forma, in quella costruzione severa e solida che è come l'infaticabile segno di riconoscimento di un'opera veramente duratura.”42

Siamo, come abbiamo detto, nel 1918. Nel mese di giugno la guerra non è ancora finita, ma già si avverte in questa sorta di battesimo della pittura metafisica il sapore del ritorno all'ordine: a quello “spirito dei grandi costruttori italiani” e a quei “valori eterni” a quella “costruzione severa e solida” che diverranno le bandiere degli Anni Venti. In realtà questi termini sembrano più adatti all'opera di Carrà o a quella di Soffici, che espongono con De Chirico in quell'occasione; molto meno possono essere riferiti ai dipinti dechirichiani di quegli anni ,nei quali si avverte sì una volontà di costruzione, ma della costruzione di qualcosa che è al di fuori e al di là della vita e della realtà, qualcosa che può essere avvicinato a un mondo di idee e pensieri astratti.

Per questo aspetto non è possibile inserire senza alcuni distingua la pittura metafisica di de Chirico nel generale ritorno all'ordine degli anni venti: per questa sua distanza dalla volontà di creare rappresentazioni positive e pacificanti, per l'enigmaticità tipica in fondo di tutta l'opera dechirichiana.

Resta un'enigmaticità, un senso sospeso, che sarà definito in qualità di mistero, che non si nutre di angoscia, come per una verità non rivelata o una ragione nascosta, al contrario anima serenità e pienezza intellettuale, date dal possesso di un mondo che non si decifra in rapporto alla realtà, alla vita, alla psicologia, o alla logica comune, bensì ha autonomia, funzioni e ragioni sue proprie.”43

L'assenza dell'angoscia è, a nostro avviso, legata proprio alla totale eliminazione della dimensione vitale, della sensibilità specificamente umana dalla rappresentazione. E questa eliminazione, al contrario di quanto egli stesso affermerà, non provoca una sensazione di solitudine, stato d'animo anch'esso fortemente umano. Si crea piuttosto un senso di vuoto, di astratta sospensione, in una “serenità e pienezza intellettuale” che è, appunto, solo intellettuale. La pittura metafisica di De Chirico ha, infatti, come caratteristica sua propria, come abbiamo visto, la volontà di escludere dalla rappresentazione proprio l'essere umano, per affermare una solitudine attribuita alle cose, in quanto forme plastiche e in quanto segni:

Ogni opera d'arte profonda contiene due solitudini: una che si potrebbe chiamare solitudine plastica e che è quella beatitudine contemplativa che ci dà la geniale costruzione e combinazione delle forme (materie o elementi morti-vivi o vivi-morti; la seconda vita delle nature morte, natura morta presa nel senso non di soggetto pittorico ma di aspetto spettrale che potrebbe essere anche quello d'una figura supposta vivente); la seconda solitudine sarebbe quella dei segni; solitudine eminentemente metafisica e per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica di educazione, visiva o psichica.

Vi sono quadri di Böcklin, di Claude Lorrain di Poussin abitati da umane figure i quali malgrado ciò sono in stretta correlazione con il paesaggio dell'epoca terziaria. Assenza umana nell'uomo. Alcuni ritratti di Ingres giungono a questo limite. Giova però osservare che nelle predette opere (salvo forse in alcune di Böcklin) non esiste che la prima solitudine: solitudine plastica; solo nella nuova pittura metafisica italiana appare la seconda solitudine: solitudine dei segni o metafisica.”44

Lasciando da parte l'interpretazione alquanto parziale e forse anche scorretta, dell'opera degli artisti citati, ci preme sottolineare l'insistenza di De Chirico sulla necessità di creare rappresentazioni dalle quali venga esclusa, non tanto e non solo la figura umana, quanto l'umano stesso. In questo contesto più calzante del termine solitudine è forse il termine assenza o ancor meglio anaffettività: è impossibile di fronte ai dipinti di De Chirico, provare un qualsiasi affetto; quel che colpisce e provoca un senso di straniamento è proprio l'impossibilità di sentire qualsiasi movimento interno legato ad affetti specificamente umani. Non c'è l'espressione della tristezza per una mancanza, né un senso di depressione per la delusione legata a tale mancanza. Come egli stesso afferma,“l'opera d'arte metafisica è quanto all'aspetto serena...”45. Torniamo allora a un'altra ipotesi di Calvesi che interpreta la “solitudine dei segni” nel senso di uno “svuotamento di senso” del segno stesso, escludendo che si possa in De Chirico parlare di simboli, come afferma anche Paolo Fossati46:

Forse si potrebbe più propriamente sostenere che, nella pittura di de Chirico, il ricorso al simbolo è escluso, o meglio precluso. (…)

I suoi in realtà non sono simboli ma segni, giacché il simbolo non si può decontestualizzare, ovvero svuotare dei suoi significati, altrimenti cessa di essere simbolo; mentre un segno, a causa della sua arbitrarietà, si presta ad essere decontestualizzato o immesso in un contesto alienante.”47

Solitudine dei segni, dunque, come loro svuotamento di senso; oggetti accostati arbitrariamente, non in nome di qualche inconscia associazione, come nel surrealismo, ma in una sorta di “insalata di parole, il cui fine, se un fine c'è, è quello di creare proprio quello straniamento e quel mistero irrisolvibile, tipico dell'enigma dechirichiano, che maschera di un alone enigmatico e fascinoso l'assenza del senso. De Chirico, insomma, vuole dire che il mondo, la vita non hanno alcun senso. È “costatazione di una carenza che frustra il sentimento stesso della solitudine come contemplazione e come attesa di un risarcimento.”48. Calvesi attribuisce alla visione del mondo di De Chirico la valenza di testimonianza di crisi di un'epoca storica: “la messa in crisi o caduta definitiva di quel mito del genio, che de Chirico coltiva, o del superuomo, che Nietzsche annunciava.”49

Tuttavia, a nostro avviso, forse la crisi o, per meglio dire, la perdurante impasse che definiremmo psichica, è più personale. Non è probabilmente un caso che il Grande metafisico limiti la sua la lettura di Nietzsche alla fase più nichilista, non accogliendo il Nietzsche che si rivolta contro “la menzogna della civiltà, che si atteggia a unica realtà”50; il suo riferimento è al Nietzsche che trova assenza di senso in un mondo svuotato dei suoi valori originari, ma che insieme ne propone un ribaltamento positivo vitalistico. Tanto che lo svuotamento di senso dechirichiano porta a una “supermaterializzazione”51, come egli stesso la definisce, degli oggetti del mondo stesso: è come se, svuotata la scatola, egli si concentrasse sulla realtà materiale, plastica, della scatola stessa, ormai isolata nella sua “solitudine” e ponesse in essa oggetti, anch'essi isolati e senza alcun rapporto né con il contenitore né tra loro. Il concentrarsi sulla materialità dell'oggetto diverrà poi, nel periodo post-metafisico, un concentrarsi sulla materia pittorica stessa, sempre eludendo il problema del senso dell'immagine. Siamo al tempo del ritorno al mestiere.

In questo scarto, rispetto al nichilismo del momento metafisico, sta forse la flessione da una pienezza e certezza espressiva, sia pure la certezza del negativo, verso un a incertezza e oscillazione tra la sospensione nel mistero e lo stato di iniziazione o conoscenza; ecco allora il definitivo prevalere, sulla rappresentazione della solitudine dei segni, della rappresentazione della solitudine come suggestivo sentimento di pienezza, della solitudine come plasticità e spessore, sogno solitario e pathos di gloria, specchiato nella lucida e impenetrabile densità delle apparenze.”52

La nascita di questa particolare atmosfera dechirichiana risale, come abbiamo detto, al 1910 e all'ispirazione che porta all'Enigma d'un pomeriggio d'autunno. Nel racconto che De Chirico stesso fa, nel 1912 a Parigi, del particolare momento della sua vita che è all'origine dell'elaborazione del dipinto, emerge la descrizione di uno stato mentale particolare:

Je venais de sortir d'une longue et douloureuse maladie intestinale er me trouvais dans une état de sénsibilité presque morbide. La nature entiére, jusqu'au marbre des édifices et des fontaines, me semblait en convalescence. Au milieu de la place s'éléve une statue représentant le Dante drapé dans un long manteau, serrant son œuvre contre son corps, inclinant vers le sol sa tête pensive couronnée de lauriers. La statue est en marbre blanc; mais le temps lui a donné une teinte grise, très agréable à la vue. Le soleil automnal, tiéde e sans amour, éclairait la staute ainsi que la façade du temple. J'eus alors l'impression étrange que je voyais toutes le choses pour la premiére fois. Et l composition de mon tableau me vint à l'esprit; et chaque fois que je regarde cette peinture je revis ce moment; le moment pourtnt est une énigme pour moi, car il est inexplicable. J'aime appeler aussi l'œuvre qui en résulte une énigma.”53

Il racconto, citato più volte, viene spesso interpretato come una approfondita e sorprendente descrizione di un momento di ispirazione creativa. Con un certo acume critico, Maurizio Calvesi sottolinea che il particolare stato di ispirazione raccontato da De Chirico, più che essere ingenua testimonianza di una esperienza personale, è il frutto di una ricerca consapevole e voluta.

De Chirico, vale a dire, scelse di porsi in un certo rapporto nei confronti della realtà che lo circondava, applicando infatti quello che lui stesso definisce... 'il metodo di Nitzsche'”54.

In realtà, anche volendo prendere le confessioni di De Chirico come riferimento spontaneo e genuino dell'esperienza vissuta, colpisce il fatto che nella sua visione il rapporto è esclusivamente con una realtà materiale che si trasfigura ai suoi occhi provocando un'impressione “strana”, sotto un “sole autunnale... senza amore”: queste semplici parole fanno pensare a uno stato mentale di indifferenza, definibile come “smarrimento” del senso, che racconta di un gelo interiore. La “sénsibilité presque morbide”, che a nostro avviso dovrebbe essere in gioco nei rapporti interumani, è rivolta, al contrario verso il mondo inanimato. Anche la maniera in cui si svolge il racconto, quel passare lento dello sguardo su cose immobili, in particolare sulla mantata statua di Dante con la testa cinta di alloro, dice di qualcosa che si avvicina a una sorta di fredda allucinazione. De Chirico, qualche riga più avanti nel testo citato, paragona la rivelazione artistica, come egli ama chiamarla, al sognare una persona che è a suo avviso “une preuve de sa rèalité métaphisique”55. Non possiamo in nessun modo considerare il sogno la prova dell'esistenza di una realtà metafisica dell'individuo. Pensiamo piuttosto che è lo stesso sguardo di De Chirico a rendere metafisico il mondo, e con esso l'essere umano, a trasfigurarlo svuotandolo della presenza, non soltanto materiale, di tutto ciò che è umano.

Clair propone un nesso tra il meccanismo che è alla base dello straniamento dell'arte di De Chirico, e che lega “un sentiment estétique à un troble psychique”, con la teorizzazione freudiana esposta in un saggio del 1919, dal titolo Das Unheimliche, “où il liait aussi l'esthétique à la psychologie”:

Dès ses premières pages, il y fasait part d'un sentiment semblable à celui que le peintre venait d'analyser, un jour où il se promenait lui aussi dans un paysage apparentement inconnu et cependant familer – un lieu qu'il s'était à vrai interdit de reconnaître: «Un jour où, un brûlant après-midi dìété, je parcourrais les rues vides et inconnus d'une petite ville italienne (…) je ressentis un sentiment que je ne puis que qualifier d'etrangement inquietant.» Ce sentiment d'inquiétante étrangeté, il le nommerait un peu plus loin «cette sorte de l'effrayant qui se rapporte aux choses depuis lontemps connues et de tout temps familières (…) le côté spectral de toute chose».”56

La particolare corrispondenza rintracciata da Clair tra la descrizione di De Chirico della rivelazione dell'aspetto metafisico delle cose e la Unheimlinch di Freud ci spinge a una analisi più approfondita. Quella che Clair definisce “inquiétante étrangeté”, e che egli coglie giustamente in tutto il realismo degli anni Venti come “residu de ténébre et de hantisse que toute figuration désormais comporterait”57, assume a nostro avviso in De Chirico un aspetto particolare, rivelato anche attraverso le varie descrizioni che l'artista ne dà. Nel realismo degli Anni Venti l'aspetto di inquietante estraneità si colora, nelle opere di molti artisti, di un senso di perdita che non è presente ,a nostro avviso, in De Chirico. C'è in lui una freddezza che ci parla di qualcos'altro. Nella sua descrizione del momento ispirativo dell'Enigma di un pomeriggio d'autunno egli ci presenta un mondo che appare improvvisamente diverso ai suoi occhi, non è quello di una percezione normale. Tutte le cose che egli vede sembrano assumere un significato non comune, strano appunto, come svuotato del senso abituale delle cose. È come se la sua stessa percezione fosse alterata per uno stato psichico particolare. In termini psichiatrici si potrebbe definire una “percezione delirante”:

Il delirante che vede cose banali o familiari, e le percepisce delirantemente, non dà un nuovo significato ad oggetti, comportamenti, espressioni che lo hanno perduto. Il delirante percepisce cose usuali con un preciso nuovo significato che appare nel momento stesso in cui la percezione è vissuta.”58

Quel che colpisce è il fatto che non sia presente nessuna notazione di uno stato psichico di tristezza, delusione o sofferenza per una mancanza, ma tutto assuma l'aspetto di una percezione lucida nella quale quel che viene fatto sparire è fondamentalmente l'altro, l'essere umano:

Quando, diciamo noi, riportando Barison, si verifica «incapacità di vivere il mondo che ci è dato, di 'esserci' con pienezza; e ciò o perché il mondo è sentito come insufficiente, il soggetto sente che all'oggetto manca qualche cosa, ha delle valenze libere, è una Gestalt inconclusa, o perché il mondo è minaccioso o troppo impellente, stringe da vicino e il soggetto sente la necessità di un altro mondo, meno pauroso e più distante, che lasci più respiro o perché il mondo sta diventando incomprensibile e gli si devono dare valori nuovi per capirlo». (…) Il soggetto non sa o non può vivere il mondo reale. La necessità di respiro, l'urgenza di difendersi da un mondo pauroso o minaccioso conducono il soggetto a reagire in maniera abnorme con la creazione di nuovi significati. (…) lo spostamento verso un altro mondo parte dalla necessità di sfuggire ed evitare un mondo umano. Non sono le cose, non è il mondo inanimato che è insopportabile ma il contatto con gli uomini. Nel nuovo mondo creato per poter più sopportabilmente vivere, vengono istintivamente proiettate le entità sentite insopportabili e rese più accettabili.”59

In questo riconoscere nuovi e strani significati in un ambiente conosciuto che appare improvvisamente diverso, nel quale le cose inanimate acquistano un senso nuovo, sembra nascondersi il sintomo di una difficoltà ad affrontare una realtà che appare troppo complessa e minacciosa. Quel che è “insopportabile” è “il contatto con gli uomini”: nasce l'amore per le piazze deserte!

Nella maggioranza delle opere del periodo del rappel all'ordre degli Anni Venti, in Italia o in Germania, non sentiamo la stessa mancanza che è presente nell'opera metafisica di De Chirico; la sospensione e l'estraneità non sono inquietanti nello stesso modo, poiché in esse è espresso il dolore per l'assenza dell'umano o per la sua riduzione a manichino. Si percepisce ancora latente, in Grosz o in Schlichter, la carica di ribellione contro la società del tempo, propria dell'espressionismo tedesco, che ha ridotto le urla degli Anni Dieci a una freddezza polemica intrisa di malinconia e sarcasmo; dietro i loro uomini-manichini, si avverte ancora un barlume di vita negata. Così come dietro le atmosfere metafisiche e i manichini di Carrà o, ancor più, in quelli, rari, Sironi è ancora presente un'umanità, anche se ormai sola con se stessa e immersa in un'assenza desolata e desolante. Non in De Chirirco: egli sembra compiacersi di tale assenza.

A questo punto, tuttavia, il discorso si fa complesso: si tratterebbe di analizzare quanto e come una certa cultura, che ha origine proprio negli anni che stiamo affrontando, e che vedrà il sorgere di filosofie del “nulla”, sia un riflesso di una società che andava completamente disfacendosi o quanto e come in quella stessa cultura si nascondessero i semi della distruzione. La fenomenologia di Husserl si sviluppa esattamente a partire dagli inizi del Novecento fino al 1938, anno della sua morte, avvenuta in Germania in pieno nazismo. La concettualizzazione dell'epochè, della messa tra parentesi della coscienza abituale del mondo, porta a interrogarsi sul come la coscienza stessa costituisca il significato delle cose. Husserl apre una ricerca che verrà proseguita ma anche distorta da Heidegger, che di Husserl stesso fu assistente a Friburgo nel 1916, arrivando a conclusioni non contenute nel pensiero dello stesso Husserl: teorizzerà un essere per la morte che ha avuto sviluppi piuttosto terrificanti:

La morte è una possibilità di essere che l'esserci stesso deve sempre assumersi in sé. Nella morte l'esserci sovrasta a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l'esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. (…)

Questa possibilità più propria incondizionata e insuperabile, l'esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. (…)

L'essere-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia. L'angoscia davanti alla morte è angoscia «davanti» al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Il «davanti-a-che» dell'angoscia è il poter-essere puro e semplice dell'esserci.”60

Il discorso andrebbe ovviamente approfondito e non è questa la sede, ma questi brevi cenni, sono utili per comprendere come ci siano state, in particolare negli anni tra le due guerre, elaborazioni di quel “pensiero negativo” che, più che semplice conseguenza della crisi, può essere stato esso stesso artefice della crisi dell'individuo, diffondendo una presunta sapienza sull'essere umano che era al contrario la teorizzazione della sua distruzione. L'idea di un essere umano che è autenticamente tale solo di fronte al sentimento dell'angoscia non è molto lontana, come vedremo più avanti, dall'idea freudiana delle “vie errabonde che portano alla morte”.

Se la ragione di certi filosofi è arrivata all'onnipotenza di voler pensare per gli altri tutto ciò che è pensabile, se l'onnipotenza di certi religiosi si è spinta a voler dire agli altri tutto ciò che si deve fare, ben al di là va considerato il tentativo di imporre agli altri ciò che «devono» sentire, di spingerli a considerarsi come esseri umani in modo irriducibile e ontologico destinati all'angoscia, di nascere crescere morire con l'angoscia. L'estrema onnipotenza di sostenere, non solo da un punto di vista di congetture filosofiche, ma da quello obiettivo di medico della psiche più profonda, che l'angoscia sta alla radice del tuo sentire e può essere estirpata solo insieme a questo, in quanto tutto il sentire non è in fondo che un risentire quello che hai provato nel passato; e all'origine del tuo passato non hai provato che conflitti traumi e angoscia.”61

Nascono così teorie, coerenti in fondo con molta parte del pensiero occidentale così come esso è andato sviluppandosi dalla nascita del logos, nelle quali il sentire umano e gli affetti sono considerati un'energia pericolosa, che cerca la sua scarica cieca, e per questo vanno rimossi, o meglio annullati. Tutta l'attività psichica ha per Freud il fine di “ripristinare uno stato precedente”, in un'idea della realtà dell'essere umano come meccanismo che ha come solo scopo quello di eliminare eccitazioni, interne (!) o esterne, che turbano la sua omeostasi.

Nella teoria psicoanalitica non esitiamo ad affermare che il flusso degli eventi psichici è regolato automaticamente dal principio del piacere; riteniamo che il flusso di questi eventi sia sempre stimolato da una tensione spiacevole, e che prenda una direzione tale che il suo risultato finale coincide con un abbassamento di questa tensione, e cioè col fatto di aver evitato dispiacere o prodotto piacere. Consideriamo i processi psichici da noi studiati in relazione a questo flusso, introduciamo nel nostro lavoro il punto di vista economico.”62

L'introduzione del punto di vista economico nei processi psichici, non può non far pensare all'essere umano come macchina che tende a ottimizzare le proprie energie puntando al massimo di produzione con il minimo sforzo. Teoria, ovviamente, razionalissima per eccellenza!

Nello stesso testo, Al di là del principio del piacere, Freud torna più volte sull'idea dell'esistenza nella psiche umana della “coazione a ripetere”, facendo esplicito riferimento al nietzschiano “eterno ritorno dell'uguale”63. Non è molto distante dall'idea heideggeriana di essere per la morte un altro concetto presente nello stesso testo, che, si noti bene, è del 1920:

Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte,e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi. (…)

Vista alla luce di questo presupposto l'importanza teorica delle pulsioni di autoconservazione, di potenza e di autoaffermazione diventa molto minore. Sono pulsioni parziali, che hanno la funzione di garantire che l'organismo possa dirigersi verso la morte per la propria via. (…)

Queste vie errabonde che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservatrici, si presenterebbero oggi a noi come l'insieme dei fenomeni della vita.”64

Anche in Freud l'essere è un essere per la morte. Essere e tempo di Heidegger viene pubblicato nel 1927, dunque dobbiamo ipotizzare una priorità da parte di Freud. Non sappiamo se i due pensatori si siano mai incontrati o l'uno abbia mai letto gli scritti dell'altro, quel che è certo è che si riscontra nella concettualizzazione dell'essere una sorprendente assonanza. E è ormai noto il percorso del pensiero heideggeriano. Le sue pesanti compromissioni con il nazismo sono state, negli ultimi tempi messe in evidenza. In particolare, lo studioso Emmanuel Faye ha analizzato, in Heiddeger. L'introduction du nazisme dans la philosophie65, le ambiguità, non soltanto politiche del filosofo tedesco:

Un autore che intende promuovere nei suoi corsi una umanità nuova ed una «mutazione totale» dell'esistenza umana secondo la «visione del mondo» del Führer, appellandosi allo «sterminio totale»(völlige Vermichtung) di tutto quello che ostacola l'autoaffermazione della «razza germanica», non potrebbe gettare i fondamenti di una filosofia a meno che non si consideri l'htlerismo come una filosofia, il che appare francamente ripugnante. Difatti non c'è ricerca o amore per la saggezza, dunque non c'è filosofia, senza un profondo rispetto per l'integrità umana.”66

Tutto questo discorso è utile per ricordare l'esistenza agli inizi del Novecento di un pensiero che si andava costruendo su un'idea dell'essere umano a nostro avviso piuttosto distorta e soprattutto distruttiva. Ma fermiamo qui le nostre considerazioni sulle concezioni, non soltanto filosofiche, che vedono la luce in quegli anni, poiché richiederebbero uno studio più approfondito. Ci fermiamo a registrare l'esistenza di tali impostazioni e ipotizziamo soltanto che lo sviluppo di un'idea dell'identità dell'essere umano (a nostro avviso fatta fondamentalmente, alla nascita, di una realtà interiore sana e creativa che può, poi, indubbiamente ammalarsi e divenire anche distruttiva), come distruttiva e distruttrice, se può essere spiegata (non giustificata) dal susseguirsi dei catastrofici avvenimenti storici, in realtà si fa essa stessa portatrice di tale distruzione determinando una totale confusione e un totale accecamento sulla realtà umana stessa, che non sarà senza conseguenze. Quel che è evidente è che non è dagli artisti che nascono teorie sulla realtà umana: gli artisti esprimono attraverso immagini, in genere senza averne piena coscienza, la loro idea dell'identità umana.

Ma cosa c'entra la figura di un artista come De Chirico all'interno di questo discorso? Certo, egli non è un filosofo (anche se amerà definire la sua pittura come “filosofica”), ma attraverso i suoi molti scritti e, soprattutto, con la sua opera ci racconta di una sua visione dell'uomo, che ha una qualche assonanza con l'idea di uno svuotamento di senso della realtà e dell'individuo riscontrabile in alcune teorizzazioni di quegli anni.

Anche Maurizio Fagiolo dell'Arco, analizzando un brano di Savinio del 1947, che specifica il significato della poesia metafisica affermando l'esistenza di una “psiche delle cose”, constata un parallelo tra il percorso che porta all'elaborazione di un'arte metafisica e la via percorsa negli stessi anni da Freud.

La scoperta della psiche delle cose (“ossia della poesia interna dell'universo”) è parallela alla scoperta della psiche degli uomini. (…) Tante volte si è parlato della pittura di Giorgio de Chirico come scrittura di sogni, e lui è stato il primo a ribellarsi, perché non voleva essere apparentato ai surrealisti che di Freud si dichiaravano figli. Savinio e De Chirico si sentono, semmai, fratelli di quel dottore viennese che, proprio come loro, adottava uno schermo greco per il suo metodo. Da una parte la “nascita della tragedia” e i complessi (Edipo, Elettra, Oreste), dall'altra un'autentica passione greca, con la schizofrenia diventata possibile salvezza.”67

Non figli di Freud, come i surrealisti, ma fratelli. Un parallelo tra la concezione della psiche dell'austriaco e la concezione dell'arte della metafisica che risulta piuttosto significativo. Freud si rifà alla mitologia greca per trovare una conferma alla sua teoria di un inconscio umano fondamentalmente perverso: Edipo che uccide il proprio padre e si accoppia con la propria madre, o l'Oreste matricida. E così l'identità del bambino sarà quella di un “polimorfo perverso”, assassino e incestuoso, che soltanto la ragione e la coscienza potranno tenere a bada. La “schizofrenia” è l'unica “possibile salvezza”! E Savinio, che ribadisce concetti espressi in passato dallo stesso De Chirico, parla di “psiche delle cose”! Ma salvezza da cosa? Da un'impotenza nel conoscere la verità dell'essere umano, la sua identità umana più profonda? Forse il pensiero schizofrenico salva da quella impossibilità di conoscenza teorizzata dal cosiddetto scopritore dell'inconscio, la cui “grande scoperta” sarebbe poi l'inconoscibilità di esso!!!!

Clair coglie un nesso preciso tra le affermazioni fatte da De Chirico negli Anni Venti, per descrivere il meccanismo della costruzione delle sue immagini, e le affermazioni fatte, negli stessi anni, da Freud nel riconoscimento di aspetti spettrali legati a oggetti comuni.

Le fait est que Freud, au cours de son essai, fournit divers exemples de situations d'Unhimliche et que chaque fois, l'imagerie chiriquienne vient comme à propos les soutenir.

Ainsi cite-t-il comme un cas d'inquiétante étrangeté par exellence «celui où l'on doute qu'un être en apparence animé ne soit vivant,et, inversement, qu'un objet sans vie ne soit en quelque sorte animé. C'est par exellence le cas, dit-il, des figures de cire, des poupées savantes et des automates». De Chirico, on le sait, jouera sur la mise en œuvre de ces deux possibilités. Tantôt, dans les intérieurs, la où l'on attend de trouver des êtres humains, il multipliera le mannequins, mannequins de couturrière ou automates androïdes. Tantôt, au contraire, dans ses extérieurs, il dresera des statues directament au dessous du sol, sans piédestal, leur donnat l'apparence ambiguë de promeneurs.”68

La risonanza tra le descrizioni freudiane e quelle dechirichiane è innegabile, ma non si fa alcun riferimento allo stato mentale che sottostà a tale vissuto: tutto sembra avvenire in condizioni di normalità. E se il fatto è ovvio per l'artista, meno ovvio è per il medico fondatore della psicanalisi, che dovrebbe arrivare a dare una spiegazione di un fenomeno che potremmo definire in termini di alienazione degli affetti o derealizzazione, sottolineando la patologia del fenomeno stesso. Tutto viene descritto come se fosse normale, come se potesse succedere a chiunque di percepite esseri umani come manichini svuotati, come se la norma fosse l'anaffettività e la percezione delirante. Non si coglie la crisi d'identità presente in un tale stato mentale: non si coglie la dissociazione del pensiero.

Tuttavia, quel fenomeno sostanzialmente 'estetico e letterario', che per Freud è la prova che tutti iniziano la vita con un assetto di onnipotenza narcisistica, qui appare in una veste assai più specifica. S'inserisce, infatti, a pieno titolo nel cuore del lavoro psichiatrico: l'unheimlinch, quella cosa che è sì invariata ma ugualmente diversa dal solito, ed è inquietante-allarmante per questo suo cambiamento inafferrabile, non appare soltanto nello stato di smarrimento, ma caratterizza in modo intenso i momenti precedenti la catastrofe interna più completa, quella disgregazione psicotica totale nota come esperienza di fine del mondo.”69

Freud, il grande scopritore dell'inconscio, definisce l'unheimlinch come un fenomeno legato all'arte, approfittando ancora una volta per dirci della sostanziale perversione della nascita umana, e non accenna minimamente all'aspetto patologico in esso presente.

Con ciò non vogliamo, ovviamente, sostenere che De Chirico sia stato un pazzo: l'essere artista, il creare immagini, e dunque anche la capacità di rappresentare la pazzia stessa, salva probabilmente dall'impazzire. Numerose sono le testimonianze delle sue stramberie, riconducibili a una personalità bizzarra e, molti dicono, incompresa, anche se è facile ipotizzare che non cercasse in alcun modo la comprensione degli altri. Certamente è stata una figura complessa, dai tratti narcisisti e intrisa di una onnipotenza che egli legava direttamente alla figura dell'artista come “mago, ma ancor più come simbolo di potenza riconoscibile in quel personaggio storico preciso, in De Chirico”70.

Quel che interessa qui, non è tanto la personalità dell'uomo, che pure ha la sua importanza nel fare arte, quanto il “messaggio” (anche se il termine è improprio, a nostro avviso, nel campo dell'arte) che attraverso la sua opera egli invia. E tale messaggio è ambiguo e conturbante: egli ci parla dell'impossibilità per l'essere umano di trovare un senso nel mondo e nella vita: non ci resta che guardare “il non senso della vita... mutato in arte”.71 . Il pensiero di De Chirico appare, dunque, vicino a quelle teorie del nulla allora nascenti.

Nel giugno 1918 De Chirico scrive un testo dal titolo significativo Arte metafisica e scienze occulte nel quale analizza a suo modo il fenomeno dello spiritismo.

L'errore di tutti quelli che ficcano il naso nelle scienze occulte è identico a quello di tutti i pittori, anche i più spiritualisti; errore cronico della tristissima umanità... Questo errore è stato ed è di veder troppo l'uomo in tutte le loro ricerche e i loro tentativi. L'animale-uomo è una maschera terribile, una cappa, un paravento inesorabile che ci nasconde molte cose ed appesantisce i nostri sensi togliendo loro quell'agilità ofidiaca e quelle qualità tentacolari che, messe a sevizio di certi rari individui, permettono loro di spolpare la materia e di cavare il dèmone da ogni cosa.”72

Il riferimento alle scienze occulte e all'esoterismo era ben presente nella cultura europea di inizio secolo, con interessanti risvolti nel mondo dell'arte73 anche negli ambienti artisti italiani, in particolare milanesi. Tali tendenze, presenti soprattutto nel simbolismo prima e nell'astrattismo poi, trovavano una giustificazione proprio nel passaggio dalla rassicurante arte come mimesi del reale a un'arte che doveva trovare in se stessa, o meglio nell'artista creatore delle proprie immagini, la propria sorgente, senza alcun “paracadute” che lo rassicurasse nel suo fare. Anche nell'ambito del futurismo italiano alcuni artisti (pensiamo in particolare a Russolo, ma anche a Balla e Boccioni) hanno avuto un percorso che ha toccato l'esoterismo e la teosofia come possibilità di realizzare l'espressione di aspetti immateriali dell'essere. Tuttavia, a nostro avviso, in tali elaborazioni il protagonista e attore fondamentale restava sempre l'essere umano nella sua aspirazione a cercare un significato superiore alla stessa esistenza oltre che al fare artistico, ambedue non più sostenuti da logiche positivistiche certe. Anche la concezione metafisica di Papini che, come ben sottolinea Calvesi, ebbe grande influenza su De Chirico, è imbevuta da un lato di tendenze verso dimensioni proprie dell'occultismo, dall'altro di influenze legate alle recenti ricerche sull'inconscio. Anche per Papini, si tratta di superare la vita stessa per qualcosa di più alto, che non può non far sorgere echi della hegeliana filosofia dello Spirito Assoluto.

La metafisica, infatti, è il dominio dello Spirito, la cui potenza sembra, a Papini e ai suoi amici, essere in espansione, farsi sempre più evidente e soprattutto corposa, anche in seguito alle scoperte sui suoi poteri occulti (metafisica, insomma, come metapsichica) e al nascente interesse per le inesplorate frontiere dell'inconscio...”74

L'idea del superamento della vita si dimostra particolarmente adatta alla pittura e alle teorizzazioni di De Chirico secondo il quale, come abbiamo visto, “veder troppo l'uomo” è un “errore cronico della tristissima umanità”. In questa si rispecchia, non tanto l'immagine del superuomo nietzschiano, che non cerca un superamento della vita bensì una sua pienezza, quanto l'esito ultimo della concezione esistenziale di Schopenhauer il quale teorizza una necessaria liberazione dalla vita stessa in quanto espressione di una ingannevole e cieca volontà. La stessa funzione assegnata all'arte nella costruzione filosofica di Schopenhauer riecheggiare nell'idea di arte metafisica di De Chirico. La dimensione artistica, propria del genio è, per Schopenhauer, il livello più alto di esistenza, prima della definitiva rinuncia alla volontà propria dell'ascesi del santo nel quale è annullato qualsiasi affetto e disiderio.

Se il mondo intero quale rappresentazione non è che la visibilità della volontà, l'arte è quella che fa più limpida codesta visibilità, la camera oscura, che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e abbracciar con lo sguardo.”75

L'apparizione pura e limpida degli oggetti, in uno spazio non più reale ma profondamente metafisico, è l'atmosfera tipica delle opere di De Chirico. D'altro canto più volte nei suoi scritti egli cita Schopenhauer, insieme a Nietzsche, come punto di riferimento e fonte di ispirazione per la sua idea dell'arte. E effettivamente egli deve aver letto alcuni suoi testi, se non altro per una larvata assonanza di linguaggio riscontrabile tra alcuni suoi scritti e quello del filosofo:

Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera usuale di considerare le cose... se quindi non più si considera il dove, il quando, la causa e la finalità delle cose, ma unicamente ciò che elle sono; se... tutta la forze dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la coscienza intera lasciamo riempire dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta dinanzi... ci si perde appieno in quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, la propria volontà, e si rimane nient'altro che soggetto puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo... l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la volontà – allora quel che viene così conosciuto non è più la singola cosa come tale, ma è l'idea.”76

Anche in questo passo di Schopenhauer, che descrive l'atteggiamento intuitivo e contemplativo tipico dell'arte, è possibile cogliere un parallelo con la maniera dechirichiana di costruire la rappresentazione: oggetti raffigurati privi di qualsiasi “volontà” che a loro volta annullano qualsiasi “volontà” nell'osservatore. Quella “volontà”, che può essere anche definita vitalità, condannata da Schopenhauer perché fonte inesauribile di illusione e dolore, va abbandonata per la rappresentazione pura di oggetti. Effettivamente di fronte a molti dipinti di De Chirico si ha la sensazione che le figure – architetture o oggetti che siano – si mostrino non nella loro realtà, ma come pure essenze e, proprio in quanto tali, private di qualsiasi vago ricordo di un'organicità di senso.

È De Chirico stesso a chiarire questa sua concezione, nel testo sopra citato che vede i limiti dell'occultismo proprio nel suo voler troppo umanizzare:

Il fatto stesso di considerare la possibilità di esistenza di forme immateriali, di figurarci un nostro doppio, un nostro Khâ, per parlare da indiano, formato da fluidi e da sostanze incorporee, antropomorfizza terribilmente il tentativo nel quale si procede e che dovrebbe essere puramente extramateriale quindi metafisico. Pertanto una supermaterializzazione delle cose che ci circondano e dello stesso nostro essere ci porterebbe sopra i gradini più elevati della scala poggiata lungo il muro dell'ignoto e potremmo considerare il fenomeno con il brivido della curiosità sì, ma anche con quella strana felicità, che io chiamerei estasi metafisica, che segna infallantemente la scoperta di una nuova terra. Ut paucis verbis absolvam, occorre solidificare l'universo. Le scienze occulte, invece, tendono a una liquefazione, a una polverizzazione di esso.”77

La pittura metafisica va dunque verso una “supermaterializzazione”, verso una eliminazione della realtà più profonda dell'essere umano che, pur avendo la sua specifica origine nella biologia, non può essere ridotta a semplice materia senza rischiare di divenire semplice meccanismo: il manichino. Paradossalmente De Chirico giunge a una conclusione solo apparentemente opposta a quella di Schopenhauer: la salvezza è per lui nel rendere tutta la realtà esclusivamente materia, ma si tratta di una materia-idea del puro oggetto. Anche qui si anela all'eliminazione di quella “volontà” che è per Schopenhauer la vita stessa. Quel che manca in De Chirico è il pessimismo tipico della concezione filosofica del tedesco (alla quale forse non è estraneo il suicidio del padre, avvenuto quando egli aveva diciassette anni!), al contrario la sua opera e le sue dichiarazioni sono imbevute di una serenità quasi ottimistica: la sua sembra una constatazione obiettiva dei fatti, più che una presa di posizione esistenziale partecipata nei confronti del mondo. De Chirico, insomma, non sembra soffrire dell'assenza di senso della vita, al contrario, sembra quasi affermarla con un sottile, forse provocatorio, ottimismo.

Lo spazio nei dipinti di De Chirico non riesce e non vuole essere uno spazio umano. Resta, come già detto, una scatola vuota dove qualcuno ha dimenticato oggetti inanimati come resti ormai inutili e insignificanti, ricordi sconnessi di un passato nel quale forse avevano avuto un senso ormai dimenticato.

Mario Sironi e lo spazio della solitudine

Un altro spazio si aggira nel mondo dell'arte, nello stesso periodo in cui De Chirico costruisce il suo vuoto: uno spazio diverso che, dietro il solo apparente deserto, racchiude un mondo di affetti vissuti profondamente e anche violentemente.

Difficile parlare di Mario Sironi senza la timidezza e l'imbarazzo suscitati da una vicenda umana ai nostri occhi difficile da comprendere pienamente senza una profonda indagine storica. Un velo di ambiguità e contraddizione copre il suo grande fare artistico, un'ombra costituita dalla sua totale compromissione con il regime fascista. Forse per comprendere il suo entusiasmo e la sua fede cieca nei confronti del fascismo è necessario ripercorrere la storia che ha portato lo stesso Benito Mussolini dalle file del socialismo anarchico alla creazione di un regime totalitario. Un interessante film di Marco Bellocchio, “Vincere”, del 2009, ne coglie l'aspetto più intimo e privato, analizzando, attraverso il rapporto con una identità femminile libera, coraggiosa e appassionata, le fasi di quella “trasformazione” che è in realtà un tradimento e che porterà il rivoluzionario anticlericale al matrimonio con la buona, sana e stupida casalinga-madre: l'ideale femminile del fascismo. È la storia di un'illusione cieca verso l'utopia di un cambiamento radicale che ha coinvolto molti personaggi, più o meno illustri, nell'Italia degli Anni Venti, in primo luogo quei futuristi, precursori per molti aspetti della stessa organizzazione politica del partito fascista.

È nel periodico Roma futurista, nato il 20 settembre 1918 e diretto da Carli, Marinetti e Settimelli, che appare il Manifesto del futuro partito futurista. Nel programma erano contenute idee assolutamente rivoluzionarie per i tempi. Citiamo solo gli elementi più innovativi: suffragio universale esteso anche alle donne e la parificazione del lavoro tra i due sessi; la confisca e la socializzazione delle terre incolte; la formazione di un esercito di professionisti con conseguente abolizione della leva obbligatoria; una giustizia gratuita per tutti e la garanzia di numerose libertà, fino all'introduzione del divorzio. Un manifesto che, ovviamente, non troverà risposta nel successivo sviluppo del fascismo istituzionale.

Esso è... il primo, e per certi versi il più significativo, documento di quel confuso ma sincero desiderio di radicale rinnovamento politico, sociale e morale di quell'ala del combattimento che, insieme a una parte dei vecchi interventisti rivoluzionari «mussoliniani» (sindacalisti-rivoluzionari, socialisti, anarchici, repubblicani di sinistra), avrebbe dato vita ai primi Fasci di combattimento e impresso loro il carattere e la forma mentis per un anno e più. Dei Fasci di combattimento futuristi, insieme agli arditi, avrebbero costituito in varie località i primi nuclei, il primo embrione organizzativo; ad essi – come ha avuto occasione di notare Croce - avrebbero portato e infuso uno spirito nuovo, sostanzialmente sconosciuto al vecchio rivoluzionarismo, sia pure sovversivo e violento verbalmente: la «risolutezza a scendere in piazza, ad imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia». Al primo fascismo i futuristi avrebbero però anche portato – comunque si voglia giudicare il valore culturale del futurismo – un fervore a suo modo morale, che mancherà completamente al successivo fascismo, che in quel momento varrà a concigliargli le simpatie di alcuni intellettuali...”78.

Dalle fila del futurismo veniva Sironi e di quell'entusiasmo di rinnovamento si fa portatore e combattente, anche con scontri con la costituita autorità fascista79, difendendo sempre con audacia le sue convinzioni ideali e artistiche, senza tuttavia mai rendersi conto del vero volto del fascismo stesso, neanche di fronte alla promulgazione delle leggi razziali. Di fede cieca abbiamo parlato per Sironi, perché in lui sembra restare sempre viva l'idea di un fascismo come possibilità di rivolgimento della società verso nuovi e più grandi ideali. Certo, non possiamo sinceramente non domandarci come non abbia potuto o saputo vedere i tanti orrori che si andavano compiendo sotto gli occhi di tutti. L'unica spiegazione, più che giustificazione, che possiamo avanzare è che egli era un artista, non un politico o uno storico, e che nella sue convinzioni ha probabilmente prevalso un sincero entusiasmo intriso di spirito romantico e di quel furore di nietzschiana memoria che aveva già animato i suoi compagni di strada futuristi. Quel che è importante, e quel che resta, è la sua opera. E tutti i suoi dipinti ci parlano di qualcosa di molto forte e profondamente umano, di una coerenza artistica che non lascia spazio a passività o ripiegamenti ideologici, né, tanto meno, si fa mai facile strumento di propaganda. E il suo fare artistico, il suo stile, i suoi soggetti, nonostante le contraddizioni con le dichiarazioni scritte, ci parlano di un senso di solitudine e di sconfitta, che sembra avere radici profonde, e di una capacità di scavo attraverso l'immagine che non ha forse uguali nell'Italia del tempo.

La più rigorosa libertà ha accompagnato l'invenzione di questo mondo sironiano: rigorosa, cioè da non confondere con la libertà sparsa, arbitraria e felice. Mondo libero da ogni accettazione di costumi pittorici o filosofici o letterari, ma fedele a una legge stretta, nata insieme con esso mondo dal suo stesso centro. Uomini e cose, forme e colori, soggiacciono a quella legge in piena dedizione e fedeltà: l'atmosfera loro ha la tristezza di un codice.”80

Il testo di Bontempelli risale al 1943, momento che segna una demarcazione nell'opera di Sironi: un passaggio ad una fase forse più difficile del suo fare artistico, ma anche più libera e ardita anche se più disperata, dopo il rifiuto di partecipare per nove anni a esposizioni con dipinti, in nome di quella grande decorazione che avrebbe dovuto segnare la fine della pittura da cavalletto. Il testo di Bontempelli si riferisce alla mostra nella Galleria il Milione dove erano state esposte dodici tempere su carta realizzate come idee per opere murali, poi mai realizzate, che metteranno fine al suo sogno di una fusione delle tre arti sorelle per un'arte che finalmente uscisse dal salotto borghese per divenire collettiva. Seguirà la Seconda Guerra Mondiale ed egli tornerà alla pittura da cavalletto dove, fondendo tutte le esperienze precedenti, riproporrà i paesaggi urbani leitmotiv di tutta la sua opera.

Sironi è sempre stato un artista inquieto. In un primo momento, a Roma, si avvicina, con Boccioni e Severini a Balla e al divisionismo, ma non condivide pienamente gli interessi per la luce tipici di quella corrente. La sua pittura si volge verso ricerche volumetriche e di massa, sarà dunque nel futurismo che gli amici si rincontreranno con maggiore condivisione di intenti. All'interno del futurismo, tuttavia, le varie personalità artistiche si differenziano.

Sironi, che...accetterà del futurismo tutta la condizione esistenziale, umana e politica, del nazionalismo, sul terreno propriamente artistico ha in comune coi futuristi la scomposizione dello spazio e il rovesciamento della prospettiva rinascimentale. Ma il confronto delle poche opere a olio e a tempera e dei numerosi disegni e 'collages' sironiani dell'epoca futurista con le corrispondenti opere di Boccioni ci fa sentire la differenza tra i contenuti ottimisti, di scoperta del linguaggio adatto a rendere la modernità del 'nostro tempo industriale', propria di Boccioni e quelli di una città industriale che non sembra più fatta per gli uomini nella condizione esistenziale e desolata dell'uomo contemporaneo. Non importa aspettare il 'Novecento' per sentire come fin da allora pesi in Sironi un contenuto che si oppone alla tradizione illuministica del progresso. Si avverte nella stessa opera futurista, dove l'impianto volumetrico e plastico, spesso gravato di elementi architettonici, raggela e nello stesso tempo impone solennità al celebrato dinamismo delle forze nello spazio. (…)

Dal futurismo Boccioni esce con i quadri dipinti a Pallanza nella villa di Busoni..., Carrà con la pittura metafisica, Sironi con le opere tipo 'Il motociclista' in cui ogni traccia verista o postimpressionistica è sgominata dalla visione sconvolgente, apocalittica di un complesso urbano che oscilla sotto il rombo della macchina.”81

Effettivamente i dipinti futuristi di Sironi sono lontani dall'ottimismo e dall'amore per la nuova città industriale. Da subito emerge una visione portatrice di angoscia per quei paesaggi, visti dall'alto con un forte senso di vertigine, e in cui manca quella compenetrazione tra spazio esterno e spazio interno, che potremmo definire empatica, tipica del Boccioni ( v. ad esempio Visioni simultanee).

Quello che comunemente viene definito un avvicinamento alla metafisica, intorno al 1920, in realtà è qualcosa di profondamente diverso.

L'abbandono del linguaggio futurista avviene... su un piano assai diverso da quello del recupero surreale, che fu tipico dell'arte 'metafisica'. Compare invece, cedendo la dinamica plastica futurista, il senso del 'primitivo', di cui Sironi fu uno dei più autentici e alti rappresentanti.”82

Un primitivo che in Sironi si rivolge alla tradizione latina, e che cerca le sue radici in una forza e drammaticità tutte mediterranee.. Dirà, a proposito della pittura murale:

I primitivi, gli arcaici i bizantini sono supremi decoratori di una profondità espressiva che non rinnega ma intende a sua origine murale, la sua pratica plastico-decorativa, ornamentale. (…) Gli etruschi, i greci, i romani, vissero ai loro giorni cogli occhi fissi alla statuaria che celebrava nei triangoli marmorei, colla sua bianca decorazione, il cielo della patria.”83

Alcuni articoli scritti prima della Seconda Guerra Mondiale testimoniano della sua visione ammirata dell'arte antica o bizantina, che avevano saputo realizzare, ancora una volta, la fusione tra l'architettura e la pittura attraverso l'affresco, il bassorilievo, il mosaico; o ancora della scultura italiana del XIII, dei Pisano, ai quali “spetta il vanto di aver raggiunto i più alti vertici del momento, e di aver iniziato il cammino dell'arte toscana che conserverà fino alla fine dei suoi svolgimenti.”84. Certo, le sue parole sono sempre viziate del nazionalismo e dell'antifrancesismo dell'ambiente artistico dell'epoca che cercava, rinnegando le grandi innovazioni dell'avanguardia, le proprie radici e una propria identità nella storia dell'arte nazionale, ma in esse è chiara la ricerca di Sironi che va verso forme plastiche possenti e incisive.

Nel 1933 affronta la grande battaglia per la pittura murale che lo vedrà impegnato per circa un decennio, nella quale, con un eroismo quasi utopico, propugna la fine della pittura da cavalletto per una pittura che divenga bene collettivo, tornando alla sua antica funzione monumentale.

Dopo la caduta del fascismo, e la conseguente crisi personale, tornerà al quadro con uno stile nuovo, ma in stretta relazione e coerenza con tutto quel che aveva fatto fino ad allora. In tutta la sua ricerca e carriera artistica il rapporto con l'architettura e il paesaggio urbano ha rappresentato la strada maestra nella quale sono confluite ispirazioni diverse, ma che tuttavia non hanno fatto che rafforzare l'indirizzo primario. Già nei Paesaggi urbani eseguiti prima del 1910, ancora divisionisti, è in germe la vocazione spaziale che caratterizzerà tutta la sua esperienza pittorica ( Paesaggio Urbano, 1908, coll. Privata). Al 1913 risalgono le prime opere futuriste (v. Figura e città, 1913, coll. Privata) nelle quali si avverte un'eco delle contemporanee ricerche di Boccioni, artista da Sironi molto apprezzato, soprattutto nella scomposizione dei volumi degli edifici, di derivazione cubista. Tuttavia il colore sironiano è estremamente lontano dalla brillantezza degli squillanti quadri futuristi. Tipico di Sironi resta, negli anni, l'uso di tonalità cupe e terrose, di grigi, marroni, ocra, di ombre nere e profonde; quando, raramente, appare l'azzurro di un cielo, esso è comunque offuscato da un grigio incombente, come di un temporale sempre annunciato o di un'atmosfera da cielo industriale, macchiato dal fumo delle fabbriche. E proprio questo aspetto lo allontana dalla poetica tipicamente futurista legata a un ottimismo sbandierato verso la modernità, la velocità, la bellezza delle periferie industriali, anche se è probabilmente proprio dal futurismo che proviene il suo forte interesse per il paesaggio urbano. Scarso o nullo è il suo interesse per il paesaggio naturale: nei pochi casi in cui è presente (come, ad esempio, in La famiglia, 1930 e 1933-'34; La fata della montagna, 1929; Il sogno, 1931; La famiglia del minatore, 1929-'30), risulta estremamente semplificato, ridotto a pochi piani anonimi. Di qui deduciamo l'interesse per tutto ciò che è opera dell'uomo o che testimonia la sua presenza.

Le città, le costruzioni con cavalcavia, i grandi muri sono spesso elemento essenziale... quasi come soggetto primario. Le forme dei caseggiati, i buchi neri delle finestre, le strade percorse da camion e segnate dai lampioni, le gru che tagliano il cielo sono motivi ricorrenti... La periferia milanese è certamente lo spunto tipologico di riferimento, interpretata con attenzione positiva, come luogo di energia e di costruzione del mondo nuovo, dove l'uomo, pur assente nelle composizioni, è comunque ben presente nella sua funzione di artefice, di homo faber della nuova civiltà della macchina.

Non vi è nulla di descrittivo nei paesaggi urbani di Sironi, nulla di letterario o simbolico, bensì la forza plastica di una sintesi fra linee e volumi, fra orizzontalità delle strade e verticalità delle costruzioni, o, come scriveva Boccioni, il fascino del «dinamismo architettonico della realtà».”85

Ma questo interesse per il fare umano non significa incondizionato apprezzamento. In realtà l'elogio della città moderna, tipicamente futurista, si tinge in Sironi di un tono non così positivo come afferma Claudia Gian Ferrari. L'homo faber non sembra gioire entusiasticamente di quel che ha costruito con le sue mani. In tutti i paesaggi urbani di Sironi la potenza delle architetture sembra schiacciare l'uomo che, quando è presente, appare come un'ombra che sguscia via rasentando muri o marciapiedi. Torna alla mente l'uomo visto di spalle come un'ombra del dipinto Sera sul corso Karl Johan di Edvard Munch, interpretato come lo stesso artista che resta solo contro tutto e tutti, in un mondo che gli è estraneo. Non è accoglienza quella che mostra il paesaggio moderno, bensì durezza, impenetrabilità: non una luce si accende dietro quei buchi neri delle finestre. Tutto appare come la denuncia di una disperata solitudine esistenziale.

Il tema nordico, classico, del Viandante è ripreso da Sironi denudato di ogni altro significato che non sia questo: solitudine – una solitudine senza misericordia o sostegno, puro andare di Nessuno da Nessun Luogo a Nessun Luogo, un simbolo dell'errare umano sulla terra, di impressionante grandiosità. (…)

C'è un Urlo di Sironi che concentra più sonorità di dolore del Geschrei di Munch, e con più generosa energia la libera: una figura femminile inginocchiata alza le braccia verso la notte, mentre due vaghi amanti si incortecciano nell'ombra..”86

Sironi, nonostante un primo momento di conflitto con il gruppo che confluiva nella rivista Valori Plastici, patrocinata da Mario Broglio, nel quale si afferma la pittura metafisica, si avvicinerà a De Chirico e alla sua invenzione, ma la sua metafisica avrà un carattere del tutto particolare, tanto che facciamo difficoltà a considerarla tale. Quel che colpisce è l'unitarietà stilistica dell'opera di Sironi che si esprime in modo particolare attraverso una sua particolarissima visione dello spazio. Apparentemente le sue periferie non sembrano così lontane dalle architetture dechirichiane: spazi vuoti raramente attraversati da figure umane, che, quando sono presenti, sono definite come piccole scure ombre. Eppure un abisso separa questi due mondi. Anche nelle opere più apertamente metafisiche, come Sintesi di paesaggio urbano del 1919-20, che sfiorano le prospettive impossibili di De Chirico, la volontà rappresentativa sembra esserne agli antipodi.

La distanza è data da quella sensazione di solitudine, di sofferenza per un'assenza, che abbiamo detto essere assente nei dipinti di De Chirico. Si tratta di una solitudine percepibile attraverso uno spazio che continuamente piange l'assenza dell'umano; uno spazio abbandonato che esprime tutta la sconsolata tristezza di tale abbandono. Spazio dunque paradossalmente umano, quasi troppo umano. Pareti perfettamente lisce e volumi squadrati, rendono impenetrabile quella solitudine che i buchi, di un profondo nero, delle finestre ci lasciano solo intuire: come occhi ciechi che non riescono più a vedere.

Dirà Margherita Sarfatti nel 1920:

Non acqua, in questi paesaggi, non alberi; bandito il 'végétal irreguliere', e tuttavia da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre (perché è questo il prodigio dell'arte) gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l'artista che ci insegna a scorgere nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta 'luxe, ordre e beauté'. Le ha glorificate con una linea ferma eppur morbida, con una comprensione contenuta e semplice (…) dei loro elementi tragici, espressi con una purezza di materia plastica in pochi toni di grigio, bruno, nero, la cui signorilità raffinata e recisa insieme rivela il colorista di razza.”87

È sorprendente come non si colga, nonostante l'evidenza dello “squallore meccanico” delle “tetre periferie urbane” e dei “loro elementi tragici”, il senso più profondo che trasuda dai dipinti di Sironi. E, se è giustificato che la Sarfatti non lo colga, per ovvi motivi ideologici e storici, lo è meno non coglierlo oggi e interpretare la pervasiva e profonda malinconia presente nelle immagini sironiane come “visione positiva”.

E se non si può dire che il tema della periferia urbana... sia un inno alla gioia, si può tuttavia affermare che nelle descrizioni sironiane non vi è certamente una denuncia dello squallore della nuova civiltà delle macchine, dell'abbrutimento della meccanizzazione, come troppo spesso è stato detto, ma semmai una registrazione forte e a volte drammatica del nuovo contesto cittadino, dove la ciminiera, che svetta verso il cielo, o i capannoni delle fabbriche (...) rappresentano le nuove cattedrali dell'era industriale, simboli né positivi né negativi, bensì reali di una situazione economica e sociale strettamente legata allo sviluppo di una nuova ideologia delle macchine.”88

Da questo punto di vista i paesaggi urbani di Sironi verrebbero ridotti a semplici descrizioni realistiche di un mondo che andava cambiando e trasformando la città in quegli anni. La contraddizione è insita nelle stesse parole della Gian Ferrari che nega il proposito di denuncia dello “squallore della nuova civiltà delle macchine”, che non è certo il fine consapevole di Sironi, ma ci parlano della drammaticità insita nelle nuove costruzioni architettoniche della modernità che, ergendosi come “nuove cattedrali dell'era industriale”, probabilmente portano l'eco, oltre che della maestosità architettonica degli edifici medievali, di quel senso di oppressione e di miniaturizzazione dell'uomo proprie di un'epoca nella quale il potere, religioso e politico, si esprimeva simbolicamente attraverso quel gigantismo architettonico che opprimeva qualsiasi idea di concreta realtà umana. Potremmo dire, con Worringer, che in Sironi è presente una sensibilità “astratta”. Quel che è certo è che non siamo di fronte a una corrispondenza empatica con il mondo.

Leggendo gli scritti di Sironi non troviamo affermazioni esplicite che possano supportare apertamente la nostra interpretazione, ma il nostro primo rapporto è con la pittura, con le immagini e con quello che esse ci trasmettono. Questo non significa che le dichiarazioni dell'artista non siano importanti per l'interpretazione della sua opera, esse vanno tuttavia lette con attenzione e sempre in relazione a quanto effettivamente ci rivelano del fare artistico. È nota l'importanza che ha avuto l'architettura nel percorso di Sironi; non vanno poi dimenticati i giovanili studi di ingegneria. Ricordiamo sommariamente la collaborazione con gli architetti Libera e Terragni nel 1932 per l'organizzazione della mostra romana per il Decennale della Rivoluzione Fascista, e, dopo la pubblicazione del Manifesto per la pittura murale, l'intensificarsi del suo impegno in progetti legati all'architettura tra i quali il più noto resta quello per la realizzazione della Triennale milanese del 1933, con la sua collaborazione con Muzio. Tuttavia, dagli scritti che riguardano l'architettura, ci si può rendere conto che l'arte del costruire immaginata dall'artista era molto lontana da quella che la nuova civiltà industriale andava proponendo.

L'avvenire di una architettura moderna deve essere concepito: I) all'infuori di una funzionalità meccanica della vita e di tutti i concetti che essa ha generato; 2) secondo i bisogni dello spirito latino, le sue concezioni, le sue sensibilità. L'architettura è stata funzionale, razionalista, e ora è più semplicemente razionale. Essa ammette finalmente che esistono bisogni dello spirito e funzioni inerenti allo spirito che non hanno niente a che fare con le funzioni materiali, sole finora contemplate dalla modernità architettonica. Ecco la inutilità pratica dell'arte riabilitata. Ecco l'architettura da clinica e hangar in cospetto della breve formula «modernamente monumentale» che spinge i razionalisti alla conquista, all'accaparramento dei più celebri monumenti del passato, purché si spoglino della loro veste definitiva per rimanere nuda, informe e astratta proporzionalità di masse. Vertigine dell'assoluto o semplicemente snobismo miope e infantile.

Da queste premesse possiamo trarre una conseguenza: che l'aver limitato alla sola gioia e sorriso della vita architettonica un pezzo assai vile di metallo lucido o no, una fredda stupidissima lastra di vetro, e un indeterminato trave di cemento armato, fa riflettere ampiamente all'errore delle soverchie astrazioni e rimpiangere il colore non solo dell'architettura dei secoli grandi, ma di tutta l'arte pittorica e scultorea che la rivestiva, la integrava e la animava, così come fanno gli occhi e la bocca sopra una bella testa di donna.”89

Il brano, che precede di quasi un anno il Manifesto della pittura murale, si inserisce nella battaglia di Sironi per una fusione della pittura e della scultura con l'architettura, e dichiara chiaramente la sua avversione per tutta quella architettura, fatta di “informe e vuota proporzionalità di masse”, che andava riempiendo le nuove periferie, nata con il funzionalismo e il razionalismo, che hanno reso possibile e giustificato, loro malgrado, tutta quell'architettura moderna, fatta di “da clinica e da hangar” e di “nuda, informe e astratta proporzionalità di masse”. Quegli stessi volumi squadrati, spogli e anonimi, sono il soggetto dei suoi Paesaggi urbani; difficile dunque vedere in essi un elogio o una qualsivoglia glorificazione della modernità. Più esatto è cogliere in queste atmosfere sironiane la registrazione di uno scarto incolmabile tra il nuovo spazio urbano e una realtà umana che con esso non trova più armonia e che da tale spazio viene schiacciata e ridotta a piccola e anonima ombra. Certo, non siamo alla denuncia, ma piuttosto a una costatazione esistenziale sulla moderna vita cittadina molto lontana dall'entusiasmo futurista o dalla celebrazione ottimistica dello stesso fascismo e che, proprio per l'assenza di implicazioni politiche o ideologiche specifiche, sfugge a qualsiasi giudizio.

Ma, al di là della concezione architettonica di Sironi, pur importante, quel che è più evidente nelle opere pittoriche che hanno per soggetto le periferie urbane, come abbiamo detto, è il senso di solitudine e malinconia, che ci dicono qualcosa di più di una pur possibile interpretazione di rapporto conflittuale con il nuovo paesaggio cittadino. La stessa sensazione è presente, infatti, in molti dei suoi dipinti con figure. Solitudine, dipinto del 1926, sembra offrirci, oltrepassando quelle mura lisce e anonime, la visione di quegli interni di edifici, dell'umanità prigioniera che in essi è contenuta; una figura di donna che è l'emblema stesso della depressione: nelle sue spalle incurvate, in quello sguardo fisso verso un'assenza e che non riesce più a vedere, e in quella nudità del corpo, senza più nulla di sensuale, che la donna sembra mostrare come luogo di sofferenza, avvolto in un bianco lenzuolo-sudario. È una delle tante donne presenti nella pittura di Sironi, figure femminili che riecheggiano la rappresentazione della Melancolia di antica memoria, ma che ci parlano forse di una immagine femminile presente nel pensiero non cosciente dell'artista che è, evidentemente, quella della depressione.

Clair analizza un dipinto di Sironi del 1928, Donna seduta e paesaggio (Malinconia) che è una chiara personificazione del soggetto presente da secoli nell'iconografia artistica. Egli ricorda la descrizione fatta da Cesare Ripa nell'Iconologia: una figura femminile, vecchia e mal vestita, seduta su un sasso con i gomiti sulle ginocchia, mesta e dolorosa, in un paesaggio brullo e arido. Certo la donna di Sironi non è vecchia né tanto meno mal vestita, ma giovane e seminuda, tuttavia nell'arte tale iconografia riferita alla Malinconia non è una novità. Come Clair ricorda, Panofsky, nello scritto Saturno e la Melancolia, del 1964, dopo un lungo e approfondito percorso sulle fonti antiche, definisce un legame tra la malinconia e la geometria, posta nell'antichità sotto la protezione del dio Saturno.

C'est le sens ultime de la gravure de Dürer: le activités liées à la géomètrie, tells la peinture et l'architecture en tant qu'arts liés au nombre et à la mesure, induisent chez celui qui les pratique une imagination mélancolique.

C'est bien le sens que l'on peuit attribuer au tableau de Sironi. Mais on peut se poser la question de savoir pourquoi pareille allégorie, si lièe à l'esprit de la Renaissance,a pu resurgir telle quelle dans l'œevre d'un peintre italien de la second décennie du XX siècle et sans doute en toute connessance de cause, à évoquer le caractère particulier de cet artiste, que l'on a decrit hautain, solitaire, taciturne, mais doué aussi d'une vaste culture qui ne pouvet ne le tenir averti du sens précis d'une iconographie traditionelle.”90

Anche la presenza della sfera, rimanda a tale iconografia, come forma geometrica perfetta dall'antichissimo valore simbolico; e strumenti geometrici compaiono in altre opere di Sironi, basti pensare a L'Architetto o a L'allieva, del 1924: squadre e compassi, presenti anche in altre opere, simboli stessi della capacità razionale dell'uomo di comprendere il mondo. Ma più che un conflitto tra “une aspiration vers une forme apollinienne” e “une aspiration vers un expressionisme dionysiaque qui, à partir des années trente, se fera de plus en plus sombre et désésperè”91, a noi sembra che in Sironi non trovi posto alcun apollineo, se con esso si vuole intendere una serena pacificazione con il mondo, “quella moderata limitazione, quella libertà dalle emozioni più violente, quella calma piena di saggezza del dio plastico”92. In realtà molte figure femminili, e non solo, di Sironi sembrano ripetere il tema della Malinconia, denunciando un'impotenza di fronte alla capacità di comprendere, non tanto il mondo naturale perfettamente misurabile con gli strumenti tecnici, bensì la realtà umana stessa. Forse nessuna immagine del tempo è così emblematica della Melanconia stessa che il dipinto Solitudine del 1925-26, anche se in esso sono assenti tutti i riferimenti iconografici tipici del tema. In realtà tutti i personaggi che compaiono nei dipinti di Sironi, sembrano essere pervasi da uno stato melanconico: oltre alle tante figure femminili, lo stesso stato d'animo è presente nei lavoratori o ancora nelle rappresentazioni della famiglia, dove l'uomo, la donna, il bambino si guardano tristemente o allontanano i loro sguardi, spesso volgendoli a terra, forse per non leggervi il comune dolore (v. le varie versioni della Famiglia del 1929-30). Non calma e serenità apollinee, ma dolore e sofferenza profondi.

Emblematico è poi il dipinto Il sogno del 1931, dove un uomo seduto su un sasso, forse versione maschile dell'iconografia della Malinconia, “vede”, senza guardarla, una figura di donna che si avvicina quasi staccandosi da un'ombra chiara alle sue spalle: allusione forse a una immagine femminile interna che non si riesce a guardare e ad amare fino in fondo, ma che, se appare nel sogno, non è perduta.

Forse, sotto la pellicola pittorica delle periferie urbane o di queste figure emblemi di una incolmabile solitudine interiore, emerge un altro tema, ancor più profondo e certamente non cosciente: quello del rapporto uomo-donna. Da un lato, uomini soli alle prese con il loro lavoro o la loro identità sociale, L'architetto, L'ingegnere, Il pescivendolo e altri, la cui immagine è definita da un ruolo sociale. Dall'altra figure femminili in attesa rappresentate attraverso immagini che si riferiscono a qualcosa di più essenziale e profondo: è il loro stesso essere immagine che viene dipinto. E queste figure, in emblematica attesa, ci dicono di un incontro che sembra impossibile da realizzare.

Particolarmente numerosa è in Sironi questa presenza di figure femminili, rare, al contrario, in De Chirico, e tutte sono in atteggiamento di attesa, un'attesa che appare vana perché ha in sé la certezza della delusione. In Nausicaa e la nave di Ulisse, la storia epica è presa come spunto per una rappresentazione emblematica della figura femminile: una splendida ragazzetta abbandonata su uno squadrato scoglio da un uomo che torna alla certezze e alla tranquillità della vita coniugale, alla sua Penelope, personificazione dell'istituzione e della norma che trionfa sul desiderio. Lo sguardo interrogativo e incredulo della fanciulla non guarda verso la nave che se ne va, osserva davanti a sé come a interrogarsi e a cercare un senso a quel che le appare incomprensibile.

Partire dall'isola di Ogigia e abbandonare Calipso, per veleggiare verso Itaca e tornare da Penelope, significa per Ulisse scegliere di appartenere per sempre 'alla condizione umana', che gli impone, in linea con i valori dell'uomo dell'età micenea, di tornare in patria per ristabilire l'ordine violato e per punire chi aveva osato trasgredire alle sacre leggi dell'ospitalità o, peggio ancora, chi lo aveva tradito. Ma anche davanti alla freschezza dell'immagine di Nausicaa, che, affascinata dallo straniero, sogna una storia d'amore, Ulisse non cambia atteggiamento, non si lascia affascinare, non si abbandona ai misteriosi movimenti del cuore; non solo resta estraneo alla passione che nasce in lei, ma ne approfitta per chiederle aiuto, per accelerare il momento del distacco.

Ad ogni offerta d'amore, provenga essa da una ninfa, da una maga o da una semplice ragazzetta, Ulisse non sa proporre altro che il ritorno al passato, alla moglie, alla casa, sempre rifiutando il confronto con una realtà nuova e sconosciuta, in nome della norma, del conformismo sociale, in ossequio alle leggi codificate dagli uomini. (…) continua a proporre, come unica ed ultima meta l'immagine della moglie-madre a cui tornare ogni qualvolta il confronto con l'ignoto avrebbe invece preteso, per poter proseguire la ricerca, la realizzazione di un magnifico svezzamento.”93

Il dramma di Sironi è forse quello di intuire l'errore di Ulisse, ma di non saper contrapporre, come l'eroe omerico, un'altra ricerca a quella della norma e del conformismo nascosti dietro gli sbandierati ideali rivoluzionari del fascismo. Ma Sironi non è Ulisse, perché non è indifferente nei confronti delle emozioni e delle passioni, non ha perduto quel sentire gli affetti che fanno la certezza dell'uomo: egli sente profondamente il conflitto, ma non sa probabilmente dargli un nome. Così come è tipico in molte dimensioni depressive, la sensibilità non riesce a divenire conoscenza.

Sentire e non vedere... è la formula della depressione. Il neonato depresso? Neppure per ipotesi. La depressione viene quando non si riesce a vivere, senza conflitto, la nascita e i primi mesi di vita; quando si soggiace al giudizio comune che non esiste la nascita psichica, che il neonato è un povero folle o un animale. La depressione viene quando non si coglie quella forma interna di essere, quando i contenuti pulsionali diventano caotici perché non più contenuti dalla figura cosciente di se stessi. ”94

Chiediamo aiuto agli psichiatri per cercare di comprendere. Parlare di depressione significa dunque dire di una sensibilità che resta solo tale: non si riesce a spiegare il perché del dolore, dell'odio, della rabbia o del desiderio e dell'attrazione verso l'altro.

Si esprime in Sironi non tanto un'oscillazione tra apollineo e dionisiaco, tra certezza razionale e caos emozionale, quanto un inconciliabile conflitto interno tra una vitalità e un desiderio non coscienti, intuiti come elementi fondamentali dell'essere umano, e una realtà razionale e cosciente che vede negli antichi valori, nel ritorno al passato e nell'ordine la vera realizzazione umana. Sironi ci racconta di un Ulisse che se ne va verso un ritorno, ma anche di una Nausicaa che, rimasta sola, si interroga sull'incomprensibilità del movimento dell'uomo, che è poi un falso movimento, in quanto nega la vera e più profonda ricerca che potrebbe essere la trasformazione, o meglio, la fusione, dell'immagine maschile razionale con una dimensione creativa irrazionale fatta appunto di “incomprensibile” vitalità e desiderio. In questo aspetto sta la profonda differenza della pittura di Sironi da quella di De Chirirco. Non c'è depressione nel metafisico, egli non si lascia vincere dalle emozioni, le elimina da sé in un atteggiamento di indifferenza: non senso di irreparabile perdita nell'assenza, ma totale vuoto affettivo; un sapere privo di sensibilità che rende la conoscenza indifferenza. In Sironi tale vuoto non si realizza perché egli sembra non aver perso il sentire degli affetti. L'unica via possibile è allora quella della Malinconia, leitmotiv di fondo di tutta la pittura sironiana.

Paolo Fossati, a proposito della battaglia condotta da Sironi per una rinascita della pittura murale, condanna senza appello tutta l'esperienza sironiana affermando l'esistenza di un fondamentale scarto tra rappresentazione e contenuto, tra la figurazione e una forza drammatica, definita da Fossati vitalistica, che ha le sue matrici in una realtà interiore psichica. Se tale giudizio può essere in parte condiviso per le realizzazioni dei dipinti murali, nei quali la finalità rappresentativa non sempre riesce a corrispondere all'intenzionalità poetica, esso è molto meno giustificato per quella pittura da cavalletto che Sironi stesso proponeva di superare. Al contrario, sarà proprio il quadro a consentirgli di approfondire la ricerca nel secondo dopoguerra quando, nella crisi personale, per la caduta degli ideali e per l'isolamento nel quale si ritrova, arriva a uno stile, memore di tutto il percorso pittorico precedente, non esclusa l'esperienza muralista, nel quale si intensifica la drammaticità, l'audacia linguistica e l'essenzialità della resa pittorica.

Il cerimoniale plastico di Sironi fa presto a rivelare un vuoto interno, che i simboli, elementari e provvisori, e la indubbia finezza pittorica della stesura, non possono colmare: la pittura non sa, né può dire una realtà storica o emotiva, di cui è la rappresentazione né ne costituisce l'esperienza. Il vero imbarazzo di fronte al lavoro di Sironi è in questa assenza di un nucleo effettivo di realtà figurativa, sostituita da un'emozionalità addolorata, drammatica o ribellistica che fa presto a denunciare la matrice vitalistica, il furore, sempre elusivo e vanamente azzardato.

Si consuma in Sironi non una questione individuale, quanto un dato culturale: e non a caso si è usata più volte la parola «astratto», non per intendere una ricerca di linguaggio (…) quanto per indicare come gli interessi poetici affondano in tensioni psicologiche o psichiche, o come altro si voglia definire una intimità conscia o inconscia, mentre cultura, formule e intenzioni si rifanno a una rappresentatività che poco o nulla ha a che vedere con quel mondo. Ha perciò ragione Cagli quando osserva, a proposito della Triennale del 1933, dedicata ai murali, che l'episodio resta concluso in sé... e risulta «la larva di un'idea, disseccata sul nascere dall'anacronismo». Ma è un giudizio che non tocca solo la questione dei murali: se per questi è proprio l'idea a non aver avuto successo e ad essere stata abbandonata, l'intera pittura di Sironi risulta compressa nel più ampio problema della rappresentazione e dei suoi contenuti, dello schema spaziale e delle sue allusioni e motivazioni.”95

È condivisibile, con i dovuti distinguo, l'interpretazione secondo la quale il “caso Sironi” è emblematico di una cultura diffusa, che portava con sé difficoltà di espressione, ma forse anche di riconoscimento, di contenuti interiori profondi, di tensioni e conflitti inaccettabili in un periodo nel quale bisognava a tutti i costi credere in un futuro radioso e pieno di nuove conquiste. Tuttavia l'”astrazione” di Sironi non è liquidabile semplicemente come “astrattezza”, né può essere giudicata un “cerimoniale plastico” che rivela “un vuoto interno”. Effettivamente, pur collocandosi all'interno del ritorno al realismo del tempo, la ricerca di Sironi va verso l'espressione di qualcosa che è all'interno delle cose stesse, non ne è la loro obiettiva riproduzione, né può essere confusa con la ricerca della “psiche delle cose” dechirichiana: non è espressione del “terribile vuoto... insensata e tranquilla bellezza della materia”96, ma scavo nelle cose, loro interrogazione, perché esse rivelino quel senso che sembra sfuggire nel banale fluire del quotidiano e del quale si sente tutta la drammatica necessità. E la domanda senza risposta invade tutti gli elementi della rappresentazione, compreso lo spazio. Gli spazi sironiani non sono stranianti come quelli dechirichiani, non ci fanno pensare a un mondo altro nel quale isolarsi per sfuggire la realtà, ma a un povero mondo che ha perduto il suo senso perché svuotato di quell'umanità che sola può donarglielo, osservati da uno sguardo umano che non è tanto al di sopra di esse, in senso metafisico, quanto in esse, affacciato da un parapetto sulla vertigine o dietro il buio di una delle tante finestre spente.

Forse proprio nella scoperta di un profondo conflitto interno, non riconosciuto, può rivelarsi il difficile percorso di Sironi.

La sua produzione scritta - escluso il testo Contro tutti i ritorni in pittura. Manifesto futurista del 1912-'0, firmato insieme a Dudreville, Funi e Russolo, che raccoglie le idee che circolavano nel salotto della Sarfatti - ha inizio dal 1930 circa. Essa dà voce al suo pensiero cosciente, agli ideali e a quell'idea, a suo modo rivoluzionaria, di funzione sociale e di valore morale del fare artistico che egli cerca e dichiara essere la missione della nuova arte.

La pittura murale è pittura sociale per eccellenza: Essa opera sull'immaginario popolare più direttamente di qualsiasi altra forma di pittura. (…)

A ogni singolo artista... s'impone un problema di rodine morale. L'artista deve rinunciare a quell'egocentrismo che, ormai, non potrebbe che insterilire il suo spirito, e diventare un artista «militante», cioè a dire un artista che serve un'idea morale, e subordina la propria individualità all'opera collettiva. (…)

Noi crediamo fermamente che l'artista deve ritornare a essere uomo fra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra più alta civiltà.”97

In quest'idea di fare dell'artista un paladino del rinnovamento della società, Sironi non vede che l'arte non può che essere creazione individuale e che l'eventuale messaggio che da essa viene trasmesso alla società non può fare compromessi con alcuna regola morale: la sua eventuale positività deriva dall'identità umana profonda dell'artista stesso che nessuna regola esterna può plasmare. Tuttavia la sua arte non sembra allinearsi ai suoi propositi: non è un messaggio di fiducia nel presente e di ottimismo, né tanto meno di speranza, quel che essa ci comunica. Le sue immagini, al di là dei proclami del pensiero verbale, rivelano un altro pensiero, non cosciente, che, proprio in quanto tale, porta l'artista a creare immagini che dicono l'esatto contrario di quel che la coscienza dice.

Certo, la battaglia condotta da Sironi per la rinascita della pittura murale ha un valore, come dicevamo, per alcuni aspetti rivoluzionario. L'idea di riportare l'arte alla collettività, strappandola dal privato dei salotti borghesi e dalla solitaria “soddisfazione del «proprietario»” ha un profondo valore etico e forse anche politico, oltre che ideale. Significa affermare che l'arte è un'esigenza di tutti gli esseri umani e che ad essi deve essere destinata.

Per ciò si richieggono per l'arte, altre mete oltre la soddisfazione del«proprietario», l'intimismo del salotto, il gelido e marmoreo silenzio delle pinacoteche. L'arte si è dovuta impicciolire, materialmente e spiritualmente, per rimanere negli appartamenti ed è diventata un fatto personale senza vaste e generali rispondenze.”98

Ma a ben vedere la sua è un'utopia che dimentica che in tutta la storia dell'arte, escluse forse soltanto le creazioni del primitivo, l'arte collettiva, la grande decorazione, è stata sempre uno strumento del potere, politico e/o religioso, per affermare se stesso. La libera espressione dell'artista ha trovato spazio anche grazie a quell'oggetto, piccolo materialmente ma non certo spiritualmente, che è il quadro.

È sempre presente nelle dichiarazioni di Sironi un entusiasmo di rinnovamento della società ancora, negli anni trenta, intriso dello spirito attivistico futurista, nonostante idealmente ormai lontano da esso, soprattutto per quella esigenza di ritorno alla robustezza degli antichi valori. Questo è quel che ci dicono le sue parole almeno fino agli anni quaranta, periodo in cui arriverà la grande crisi. Ma, come abbiamo detto, la sua pittura parla d'altro.

Negli scritti, la depressione di Sironi si farà più evidente nel Secondo Dopoguerra quando verranno alla luce tutte le contraddizioni della sua vita passata, e ancor più quando l'artista dovrà fare i conti un suo ancor più radicale fallimento, personale in questo caso: con il suicidio della figlia diciottenne Rossana, nel 1948.

Gli scritti degli anni di poco precedenti la morte della figlia ce lo mostrano svuotato di tutte le illusioni e lasciano vedere più chiaramente l'uomo.

Prima di impazzire prima di morire

prima di partire per il lungo

viaggio

voglio guardare ancora la

luce d'oro che piove

dal cielo sulle viole

Prima di impazzire

ho fretta di baciarvi

poveri ricordi e provare di distinguervi

se il cuore

riesce a sopportarlo...”99

Ora le sue parole parlano chiaramente della paura di impazzire che il buio dell'anima porta con sé, quella paura di impazzire che si maschera dietro la paura della morte, ma che in realtà è il vero spettro di ogni depressione: la paura del buio e del silenzio interno, della perdita della capacità di sentire e di immaginare, tesori primari di ogni artista. Troppo semplice parlare di disillusione e sofferenza per la solitudine nella quale l'artista si ritrova dopo la caduta di quelli che egli aveva pensato essere gli ideali di un mondo nuovo. C'è qualcosa di più profondo in queste parole:

Ma quello che è venuto dopo è stato veramente una cosa spettrale con una aureola paurosa di delusioni e di bocconi amari che mi sono rimasti in gola. Ora sono più selvaggio e più duro di prima di questa prova terribile. Ho visto cose che tutta la mia amara filosofia non mi avrebbe mai fatto immaginare ho visto l'atrocità della vita e la bestialità umana. Bene. Ora vorrei trovare la forza di rimettermi lo zaino in spalla e ripartire col mio nero bagaglio per la mia immensa solitudine.”100

Non sappiamo a cosa si riferisse Sironi in questo scritto (la datazione oscilla tra il 1945 e il 1950), ma è chiaro lo stato d'animo di quel momento e la consapevolezza della propria solitudine che, se da un lato poteva essere reale visto l'isolamento nel quale egli vive nel Dopoguerra, dall'altro ci parla di una solitudine interiore ben più profonda, tanto che egli definisce “nero” il suo “bagaglio”: un buio interno che è l'immagine più calzante della depressione.

E, dopo il 5 luglio 1948, data del suicidio di Rossana, una serie di scritti testimoniano la ormai deflagrante depressione: la morte diventa il tema ricorrente. Il suicidio di un figlio non può non portare alla costatazione del fallimento, non solo del proprio ruolo paterno, ma di tutta la propria esistenza. Forse nell'immagine di Rossana, emblematicamente, si conclude la storia del suo più profondo conflitto: la bellissima giovane, immagine della vitalità e del desiderio, la Nausicaa abbandonata, non ha retto al dolore dell'abbandono e si è tolta la vita.

Nell'ultima fase della sua attività Sironi affronterà più volte il tema dell'Apocalisse, suggerendo un'allusione a un'apocalisse interiore. Nell'Apocalisse del 1961 (coll. Privata) gli esseri umani cadono travolti dal crollo di immancabili architetture in uno spazio ormai piatto che contiene, nella parte superiore destra, una macchia nera, una sorta di squarcio verso il buio dove emergono due bianche figurine vicine, stranamente calme di fronte al disastro.

...un paradiso per noi soli io e te dolcezza – morti sì morti e tranquilli – così vicino a te – a guardare il mare e il sole che cade nel mare – e le cose dolci della vita – tutto visto dal di là senza soffrire – ma non aprire il nostro petto – non c'è che un cuore orrendamente bruciato – chi ci vedesse nulla capirebbe – sorridiamo – guardiamo lieti sì – sereni il mare e un vapore lontano”101

Parole per una figlia che non ha voluto vivere, come egli stesso non ha più la forza di fare. Quello squarcio sul nero dal quale sembrano affacciarsi i due esserini bianchi sembra una trasposizione dell'illusorio anelato ritrovamento della figlia, se non nella vita che non ha voluto vivere, nella morte che sola a questo punto può avvicinarli.

Finiti gli entusiasmi e le speranze per un cambiamento del mondo e per un'arte che si ponesse come strumento di tale cambiamento, emerge una devastante dimensione interna di fallimento. Ci chiediamo allora come sia stato possibile che, di fronte a tanta desolazione interiore, egli abbia potuto continuare a creare immagini tanto potenti e con uno stile personalissimo. Forse egli non è realmente impazzito proprio perché non ha perduto quella dimensione creativa che gli era propria, perché è riuscito a trasformare la sua interna desolazione in un mondo di immagini espresse con un linguaggio che, come abbiamo detto, ha una nettissima coerenza.

La desolazione, il senso di solitudine e il deserto dell'anima ci sono stati in realtà raccontati da Sironi sin dagli Anni Dieci e ancor più nelle Periferie urbane degli Anni Venti, che possiamo definire veri e propri paesaggi dell'anima, nuovi deserti metropolitani dove invano l'essere umano cerca di placare la sua sete di umanità.

La città sironiana, quella dei celebri, memorabili Paesaggi Urbani, è il trionfo finale del deserto sull'uomo, dello spazio inabitato e inabitabile sull'abitare umano. Ecco che cosa ti è rivelato: che la casa è un combattimento vano, un vuoto isolato nel grande infinito Vuoto un combattimento non un problema urbanistico o economico. Sironi non si occupa che dei significati primi. (…)

Sironi è ben lontano dal disumano. Non piglia le geometrie urbane come pretesto per disumanizzare; il suo cuore batte, soffre sempre... I deserti delle architetture surrealiste gli sono estraneissimi. (…) Inavvicinabili le piazze da teatro di un Chirico alle periferie di Sironi! De Chirico mi ripugna tanto, che fatico a nominarlo, un gonfio di vento, una siringa scordata... Sironi è un vaso di elezione: lo stridore di un tram lo attraversa come una scheggia profetica, il muro di una fabbrica, un ciclista, un camion ripetono l'uomo è solo è solo, la città non è mai esistita, la città contemporanea è il Monumento alla Solitudine, un cimitero di solitudini...”102

Al di là della spietata, e senza appello, condanna di De Chirico, propria di un temperamento poetico, Ceronetti mette in evidenza il significato più profondo di tutta l'opera sironiana: un urlo prolungato, silenzioso e per questo ancor più profondo, espressione del dolore per una incolmabile solitudine.

La distanza da De Chirico è proprio in questo radicale dolore. De Chirico si compiace del vuoto creato sulla tela e nella mente dell'osservatore. Il suo non è uno spazio intriso di dolore, ma un elogio dell'assenza. La sua pittura filosofica si allea con le filosofie del nulla che andavano allora tracciando i solchi della “nientificazione”103 dell'esistenza. Quella di Sironi non è pittura filosofica, ma espressione di una visione profonda dell'esistenza stessa e denuncia latente, suo malgrado, della stessa “nientificazione”.

Anche nei dipinti nei quali appaiono figure isolate, emblemi di identità umane, le architetture che le inquadrano e contengono, tutte rigorosamente squadrate e spoglie, più che il loro abituale ambiente di vita, appaiono come celle carcerarie nelle quali questi individui in isolamento si sono rassegnati a vivere; questi esseri esprimono con intensità, nei loro volti e nei loro gesti rallentati, quel sentimento di solitudine e inutilità del vivere che verrà fuori in modo ancor più evidente ed espressivo negli ultimi dipinti sironiani.

C'è una totale coerenza nella pittura di Sironi legata a questo tema di fondo che, nonostante i suoi propositi coscienti, emerge con nettezza. Tanto che si può parlare di sviluppo e variazioni di uno stesso costante tema: la malinconia. Un sentimento che Panofskij104 ha analizzato, partendo dalla famosa incisione di Dùrer, definendolo come un male proprio di una personalità che è consapevole di avere tutti gli strumenti scientifici e tecnici e tutta l'intelligenza razionale per comprendere la verità del mondo, ma che, nonostante questo, realizza la propria impotenza di fronte a qualcosa che non si lascia comprendere dalla scienza e dalla tecnica. Non a caso la Melanconia viene sempre rappresentata come una figura femminile. Genialità dell'arte! Il femminile rappresenta quella dimensione interna non razionale e non cosciente, che ogni uomo dovrebbe conservare dentro di sé, e che incarna quell'attesa di risposta al desiderio che, se delusa, porta inevitabilmente alla depressione. Oggi possiamo dire che quel che è difficile comprendere non è il trascendente, o il metafisico. Invece di guardare in alto o al di là delle cose, possiamo trovare il coraggio di guardare dentro di esse, nella realtà profonda dell'essere umano, in quella dimensione inconscia per la quale l'artista si ritrova creatore di immagini che risultano sconosciute a lui stesso. Non aveva Sironi gli strumenti per comprendere, non si è mai appoggiato a teorie filosofiche che giustificassero il suo fare, ha sempre cercato solo in se stesso, nei propri ideali e utopie e nelle proprie contraddizioni. Come non si è mai lasciato andare a facili e astratti psicologismi: i suoi tormenti interiori li ha tenuti per sé, salvo raccontarceli con le sue immagini artistiche.

Il carattere magnificamente aristocratico ne fa il meno freudiano degli artisti dell'epoca freudiana. L'onirico, il regresso infantile ripugnano al virile mondo sironiano. Il freudismo è in un ordine di pensiero volgare, livellatore: chi è nobile lo respinge d'istinto.”105

In realtà il fascino del freudismo che ammalia i surrealisti, li porta a concepire opere nel quale il massimo che riescono ad ottenere è il racconto del sogno che, proprio in quanto racconto, non è che la sua espressione razionale. Sironi forse non sa cosa agita la sua mente, ma ce lo mostra attraverso le sue immagini, facendo emergere più apertamente e chiaramente di tanti surrealisti, il suo mondo interiore. Crediamo che l'errore del Surrealismo sia stato proprio quello di seguire il freudismo e l'idea che l'inconscio potesse emergere dalle libere associazioni, non cogliendo che la libera associazione è un chiacchiericcio vuoto che, il più delle volte ha lo scopo di allontanare e distrarre dal senso vero e profondo dell'esistenza. Ma sappiamo che per Freud il senso vero dell'esistenza, che risiederebbe nell'inconscio, è fatto di perversioni e conflitti insanabili, non di vitalità e identità umane che nel desiderio cercano l'altro da sé per la realizzazione reciproca. Lo sa Sironi che denuncia nelle sue immagini l'assenza di risposte alla sete di ricerca dell'uomo; assenza storica e culturale, oltre che umana.

Non aveva la cultura del suo tempo gli strumenti per trovare le risposte, in quella crisi del Primo Dopoguerra, oscillante tra facili ed entusiastici, ancorché vuoti, ottimismi, filosofie del nulla e presunte scoperte dell'inconscio, che in realtà erano suoi ulteriori nascondimenti e che non facevano che confermare quel che da secoli era già stato detto, dall'antica filosofia greca, creatrice del logos occidentale, al cristianesimo: di una dimensione interiore dell'essere umano geneticamente fatta di strani animali e oscure perversioni che soltanto la coscienza vigile può tenere a bada.

Ma gli artisti parlano con le loro immagini e ci raccontano di quelle dimensioni inconsce con molta più sapienza dei filosofi o delle loro stesse dichiarazioni verbali coscienti. Ci dimostrano, come sempre ha fatto l'arte, che esiste un pensiero non cosciente fatto di immagini che chiede di essere visto, ascoltato, interpretato, al di là del pensiero della coscienza, e che, nel suo parlare, racconta di una realtà interiore umana intelligente e creativa che può essersi ammalata e raccontare il suo male, ma può anche essere sana e raccontare tutta la sua bellezza.

Conclusioni

Il cercare nell'identità non cosciente dell'artista il senso delle immagini che egli realizza non è la proposta di un'analisi “neuroestetica”106, poiché non pensiamo vada ricercata nei meccanismi neurologici la fonte delle immagini artistiche. Ci riferiamo piuttosto alla possibilità di guardare alla mente che crea un pensiero fatto di immagini, che hanno un legame stretto con il biologico, ma non sono riducibili a esso, e che, proprio in quanto pensiero, ci rivelano quale sia la concezione dell'essere umano, più ancora che del mondo, presente nella mente dell'artista.

Alla domanda se “esista una corrispondenza specifica tra patologia e iconografia”107 non possiamo che rispondere probabilmente in modo affermativo: una mente malata non può che produrre immagini malate. Ma forse la patologia va cercata non “nella forte emicrania con aura allucinatoria non solo visiva” della quale soffriva De Chirico, il quale “sapeva descrivere con precisione i sintomi, pur mancando di una diagnosi medica”108. La malattia non va cercata nel sintomo manifesto, ma nella causa profonda. Non crediamo che le rappresentazioni e lo stesso stile di De Chirico siano conseguenza della sua emicrania, quanto piuttosto di un pensiero malato (dal quale forse deriva anche la sua emicrania!) che vuole raccontarci la menzogna di un assenza di senso nell'essere umano, troppo vicina al nulla. Aggiungiamo che non è forse un caso che la pittura di De Chirico sia così povera di immagini femminili. Probabilmente il senso più profondo dell'identità umana, in particolare di quella artistica, è nel rapporto con un'altra identità diversa non soltanto biologicamente dalla propria.

Con l'opera di Sironi, nella quale numerose sono le figure femminili, siamo, al contrario, di fronte a un pensiero che racconta per immagini di una realtà umana profondamente sofferente per una perdita, immersa nel dolore della colpa per l'abbandono di quella bella e dolcissima Nausicaa che chiedeva l'eroico coraggio dell'amore. Forse anche lui, come il Mussolini di Vincere abbandona la donna bella, coraggiosa e innamorata che è pronta a giocarsi tutto per lui, per una gloria che si rivelerà quel che in realtà era: una devastante follia.

Ma Nausicaa, nella sua solitudine, non smette di attendere l'ombra di un futuro veliero all'orizzonte.

M. Sironi, Nausicaa e la nave di Ulisse

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2G. De Chirico, Memorie della mia vita, Bompiani,prima ed. 1962, Milano 2002, p.113

3J. Clair, Malinconia, motifs saturniens dans l'art de l'entre-deux-guerres, Gallimard, Paris 1996, p.8

4Ibidem, p.9

5J. Clair, op. cit. p.11

6Ibidem, p.55

7Ibidem, p.54

8Ibidem, p.55

9Ibidem, p.56

10J. Clair, op. cit., p.30

11G. De Chirico, Memorie della mia vita, Bompiani,prima ed. 1962, Milano 2002, p.79

12Ibidem, p.78

13Ibidem, p.79

14M. Calvesi, La metafisica schiarita, Feltrinelli, Milano 1982, p.40

15A questo proposito andrebbe indagato il tema della presenza dell'immagine femminile nell'opera, ma forse anche nella vita dell'artista.

16M.Calvesi op. cit. p. 18

17Per un approfondimento di tali argomenti si rimanda al testo di M. Calvesi, La Metafisica schiarita, op. cit.

18Voce “Filosofia” nel catalogo della Mostra Futurismo & Futurismi, a cura di Pontus Hulten, Fabbri 1986, p.477

19G. De Chirico, Il ritorno al mestiere, in Valori Plastici (1918-22), in Il meccanismo del pensiero, Einaudi, Torino 1985, p.93-99

20Per una visione dei vari contributi all'affermazione del classicismo si veda M. Fagiolo dell'Arco, Classicismo pittorico, Costa& Nolan, Genova 1991, costlan editori, Milano 2006, pp.11 e segg.

21M. Calvesi op.cit. p. 56

22Ibidem, p.57

23Ibidem, p. 58

24Per approfondimenti vedi M. Calvesi, op. cit. pp. 58 e seg.

25Ibidem, p. 59

26G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica polemica e autobiografia, Einaudi, Torino 1985, p.153

27Ibidem, pp.156-157

28Ibidem, p. 15

29Ci riferiamo alla polemica scatenata dall'attribuzione del concetto di simultaneità fatta da Apollinaire ai futuristi e rivendicata da Delaunay, per la quale si rimanda a M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Prima edizione Lerici, Milano 1996, Laterza, Bari 2004, p.130 e seg.

30M. Calvesi, Le prospettive strabiche di Giorgio de Chirico, in La Metafisica schiarita, op. cit. p. 227

31Jean Clair, op. cit. p. 63

32Ibidem

33P. De Vecchi, E. Cerchiari, Arte nel tempo, vol.3, tomo II, Bompiani, Milano 1996, pp.519-520

34M. Calvesi, op. cit. p.94

35G. De Chirico, op. cit. pp. 319-320

36Ibidem, p.95

37Ibidem, p.99

38M. Calvesi, op. cit. p.9

39G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero, op. cit., p.392-395

40Ibidem, p.104

41Ibidem, p.107; sullo stesso argomento si veda anche Il monomaco parla, ibidem, pp.119 e seg.

42G. de Chirico, L'arte metafisica della mostra di Roma, in Il meccanismo del pensiero, op. cit. pp. 57-58

43P. Fossati, Pittura e scultura fra le due guerre, in Storia dell'arte italiana, il Novecento, Giulio Einaudi Editore, Torino 1982, p. 189

44G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero, op. cit. p.86

45Ibidem. p. 86

46P. Fossati, op. cit. p. 189

47M. Calvesi, Giorgio de Chirico, in La Metafisica schiarita, op. cit. p.245

48Ibidem, p. 246

49Ibidem, p. 246

50F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1989, p.57

51De Chirico, op. cit. p.63

52M. Calvesi, op. cit. pp. 348-349

53G. De Chirico, op. cit., pp. 31-32

54M.Calvesi, op. cit, p.17

55G. De Chirico, op. cit. p.33

56J. Clair, op. cit., p.60; i brani di S.Freud riportati si riferiscono a L'inquietante Etrengeté, in Essai de psychanalyse appliquée, Paris Gallimar, 1952 pp.163-211

57Ibidem, p. 63

58M Fagioli, Alcune note sulla percezione delirante paranoicale e schizofrenica, in Il Sogno della farfalla, Nuove Edizioni Romane n.3/2009, p11; testo pubblicato originariamente in “Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria”, XXIII, 4, 1962, pp. 377-392,

59Ibidem, p.13-14

60M. Heidegger, Essere e Tempo, in AA.VV. Il testo filosofico, vol.3/2, Mondadori 1993, p.183

61G. De Simone, M. Fagioli, Alla ricerca di una teoria degli affetti, in Il sogno della farfalla, n.4/1993, Nuove Edizioni Romane, p.5; il riferimento è a S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, 1926

62S. Freud, Al di là del principio del piacere, 1920, Bollati Boringhieri, Torino 1975, p.17

63S. Freud, op. cit., p. 39

64S. Freud, op. cit. p.63

65 E.Faye, Heiddeger. L'introduction du nazisme dans la philosophie , Albin Michel, 2005

66E. Faye, Non sonno un inquisitore umanista, Heidegger era un ultras del Führer, in il Riformista 22 luglio 2007

67M. Fagiolo dell'Arco, op. cit., p. 92

68J. Clair, op. cit. p.64

69F. Romano, La Rotlosigkeit. Una breve introduzione, in Il sogno della farfalla, n.2/2002, Nuove Edizioni Romane, pp.31-32

70P. Fossati, op. cit, p.191

71Ibidem, p.190

72De Chirico op. cit. p. 62

73Per un approfondimento del tema si veda J. Nigro Covre, Astrattismo, Federico Motta Editore, prima ed. italiana aprile 2002, prima ristampa settembre 2005

74M. Calvesi, op. cit. p.29

75A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, prima ed. “Classici della filosofia moderna” 1914-16, Laterza 2004, p296

76A. Schopenhauer, pp.208-209

77De Chirico, op. cit. p.63

78R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino, prima ed. 1965, 1995, pp.474-475

79Ci riferiamo, ad esempio, alla polemica, e all'atto di difesa dello stesso Sironi , scatenatasi dopo gli attacchi dell'onorevole Farinacci, dalle colonne di Regime fascista, alla V Triennale di Milano, aperta il 6 maggio 1933, che presentava le decorazioni murali di De Chirico, Funi, Campigli, Severini, Depero, Prampolini, Usellini e altri, invitati dallo stesso Sironi che faceva parte del direttorio della mostra. Farinacci accusò i novecentisti di antifascismo e la stessa Sarfatti intervenne a difesa dei suoi artisti.

80M. Bontempelli, 12 tempere di Mario Sironi, presentazione, Edizioni del Milione, Milano 1943, in Sironi, gli anni della solitudine, 1940-1960, Giorgio Mondadori, Milano 2003, pp. 37-38

81R. De Grada, Sironi oggi, in Mario Sironi, Electa Editrice, Milano, 1973, riportato nell'Antologia critica del catalogo Sironi, gli anni della solitudine, 1940-1960, op. cit. p.317

82Ibidem, p.320

83M. Sironi, Ragioni dell'artista, in Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2000, pp.72-73

84M. Sironi, Terra di Pisa, in La Rivista illustrata del Popolo d'Italia, agosto 1935, in M. Sironi, op. cit. p.94

85C. Gian Ferrari, Mario Sironi – Paesaggi urbani, Mazzotta, Milano 1998, p.11

86G. Ceronetti, Mistico Sironi, in Albergo Italia ,Giulio Einaudi Editore, Torino, 1985 pp. 81-85, in Sironi, gli anni della solitudine, 1940-1960, a cura di V. Sgarbi, G. Mondadori Editore, Torino 2003, p.324

87M. Sarfatti, in Il Convegno, recensione della mostra del 1920 alla Galleria Arte a Milano dove Sironi espone tre paesaggi insieme a opere di Martini, Funi, Carrà e altri.

88C. Gian Ferrari, op. cit. pp.11-12

89M. Sironi, Architettura ed Arte, in Il popolo d'Italia, 8 gennaio 1933 in M. Sironi, Scritti e Pensieri, Abscondita, Milano 2000, pp.25-26

90J.Clair, op, cit. p.89

91Ibidem, p. 90

92F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972, ed 189, p.24

93L. Arcà, Il segreto delle donne di Ulisse, in Il sogno della farfalla, n.4/1995, Nuove Edizioni Romane, pp.36-37

94M. Fagioli, Una depressione, in Il sogno della farfalla, n.2/2002, Nuove Edizioni Romane, pp.19-20

95P. Fossati, Pittura e scultura fra le due guerre, in Storia dell'arte italiana, Il Novecento, Giulio Einaudi Editore, Torino 1982, p.240; l'annotazione di Cagli si legge in C. Cagli e A. Gatto, Sironi, Milano 1969.

96G. De Chirico, Noi metafisici, in Il meccanismo del pensiero, op. cit., p.67

97M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in La colonna, dicembre 1933, in M. Sironi, Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2000, pp. 44-45

98Ibidem, p.48

99 M. Sironi, Pensieri, in Sironi, gli anni della solitudine, 1940 – 1960, a cura di V. Sgarbi, G. Mondadori, Milano 2003, p.285

100 M. Sironi, Pensieri, (1945-1950 circa), in M. Sironi, Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, op. cit. p.164

101 Ibidem, p.175

102 G. Ceronetti, op. cit., p.324

103 Termine spesso usato dal filosofo Severino.

104 R. Klibansky, E.Panofskij, F. Saxl, Saturno e la Melancolia, Einaudi, Milano 1997

105 G.Ceronetti, op. cit. p.325

106 C. Cappelletto, Neuroestetica. L'arte del cervello, Laterza, Bari2009

107 Ibidem, p.41

108 Ibidem