venerdì 8 marzo 2013


ARTE DELLA CONTRORIFORMA

Concilio di Trento, Sess. XXV

 CONCILIO DI TRENTO

SESSIONE XXV (3-4 dicembre 1563)
oiché la chiesa cattolica, istruita dallo Spirito santo, conforme alle sacre scritture e all’antica tradizione, ha insegnato nei sacri concili, e recentissimamente in questo concilio ecumenico (403) che il purgatorio esiste e che le anime lì tenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e in modo particolarissimo col santo sacrificio dell’altare, il santo sinodo comanda ai vescovi che con diligenza facciano in modo che la sana dottrina sul purgatorio, quale è stata trasmessa dai santi padri e dai sacri concili (404), sia creduta, ritenuta, insegnata e predicata dappertutto.
Nelle prediche rivolte al popolo meno istruito, si evitino le questioni più difficili e più sottili, che non servono all’edificazione, e da cui, per lo più, non c’è alcun frutto per la pietà. Così pure non permettano che si diffondano e si trattino dottrine incerte o che possano presentare apparenze di falsità. Proibiscano, inoltre, come scandali e inciampi per i fedeli, quelle questioni che servono (solo) ad una certa curiosità e superstizione e sanno di speculazione.
I vescovi, inoltre, abbiano cura che i suffragi dei fedeli viventi e cioè i sacrifici delle messe, le preghiere, le elemosine ed altre opere pie, che si sogliono fare dai fedeli per altri fedeli defunti, siano fatti con pietà e devozione secondo l’uso della chiesa e che quei suffragi che secondo le fondazioni dei testatori o per altro motivo devono essere fatti per essi, vengano soddisfatti dai sacerdoti, dai ministri della chiesa e dagli altri che ne avessero l’obbligo, non sommariamente e distrattamente, ma diligentemente e con accuratezza.

Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini.

Il santo sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che hanno l’ufficio e l’incarico di insegnare, che - conforme all’uso della chiesa cattolica e apostolica, tramandato fin dai primi tempi della religione cristiana, al consenso dei santi padri e ai decreti dei sacri concilii, - prima di tutto istruiscano diligentemente i fedeli sull’intercessione dei santi, sulla loro invocazione, sull’onore dovuto alle reliquie, e sull’uso legittimo delle immagini, insegnando che i santi, regnando con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; che è cosa buona ed utile invocarli supplichevolmente e ricorrere alle loro orazioni, alla loro potenza e al loro aiuto, per impetrare da Dio i benefici, per mezzo del suo figlio Gesù Cristo, nostro signore, che è l’unico redentore e salvatore nostro; e che quelli, i quali affermano che i santi - che godono in cielo l’eterna felicità - non devono invocarsi o che essi non pregano per gli uomini o che l’invocarli, perché preghino anche per ciascuno di noi, debba dirsi idolatria, o che ciò è in disaccordo con la parola di Dio e si oppone all’onore del solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (405); o che è sciocco rivolgere le nostre suppliche con la voce o con la mente a quelli che regnano nel cielo, pensano empiamente.
Insegnino ancora diligentemente che i santi corpi dei martiri e degli altri che vivono con Cristo - un tempo membra vive di Cristo stesso e tempio dello Spirito santo (406) -, e che da lui saranno risuscitati per la vita eterna e glorificati, devono essere venerati dai fedeli, quei corpi, cioè, per mezzo dei quali vengono concessi da Dio agli uomini molti benefici. Perciò quelli che affermano che alle reliquie dei santi non si debba alcuna venerazione ed alcun onore; che esse ed altri resti sacri inutilmente vengono onorati dai fedeli; o che invano si frequentano i luoghi della loro memoria per ottenere il loro aiuto, sono assolutamente da condannarsi, come già da tempo la chiesa li ha condannati e li condanna ancora.
Inoltre le immagini di Cristo, della Vergine madre di Dio e degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese; ad esse si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli (407), ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili - specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle sacre immagini (408).
Questo, poi, cerchino di insegnare diligentemente i vescovi: che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed amare Dio e ad esercitare la pietà. Se qualcuno insegnerà o crederà il contrario di questi decreti, sia anatema.
Se poi, contro queste sante e salutari pratiche, fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente che essi siano senz’altro tolti di mezzo. Pertanto non sia esposta nessuna immagine che esprima false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori.
Se avverrà che qualche volta debbano rappresentarsi e raffigurarsi le storie e i racconti della sacra scrittura - questo infatti giova al popolo, poco istruito - si insegni ad esso che non per questo viene raffigurata la divinità, quasi che essa possa esser vista con questi occhi corporei o possa esprimersi con colori ed immagini.
Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza. Così pure, i fedeli non approfittino delle celebrazioni dei santi e della visita alle reliquie per darsi all’abuso del mangiare e del bere, quasi che le feste dei santi debbano celebrarsi col lusso e la libertà morale. Da ultimo, in queste cose sia usata dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla casa di Dio, infatti, si addice la santità (409).
E perché queste disposizioni vengano osservate più fedelmente, questo santo sinodo stabilisce che non è lecito a nessuno porre o far porre un’immagine inconsueta in un luogo o in una chiesa, per quanto esente, se non è stata prima approvata dal vescovo; né ammettere nuovi miracoli, o accogliere nuove reliquie, se non dopo il giudizio e l’approvazione dello stesso vescovo. Questi, poi, non appena sia venuto a sapere qualche cosa su qualcuno di questi fatti, consultati i teologi ed altre pie persone, faccia quello che crederà conforme alla verità e alla pietà. Se infine si presentasse qualche abuso dubbio o difficile da estirpare o se sorgesse addirittura qualche questione di una certa gravità intorno a questi problemi, il vescovo, prima di decidere aspetti l’opinione del metropolita e dei vescovi della regione nel concilio provinciale. Comunque, le cose siano fatte in modo tale, da non stabilire nulla di nuovo o di inconsueto nella chiesa, senza aver prima consultato il santissimo pontefice romano,

Picasso, il gigante della mia infanzia

Corriere della Sera 29.9.09
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine



«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto sal­vo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Pi­casso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni tra­scorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dal­l’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pitto­re: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matri­monio con Olga Kokhlova), è precoce­mente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rap­presentano l’ala femminile della fami­glia. Claude, nella sua veste di ammini­­stratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picas­so administration»: una società che si oc­cupa dei diritti legati all’utilizzo del no­me dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’ini­zio, vivevamo a Parigi in un appartamen­to- atelier sempre pieno di gente che vole­va vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte vie­ne prima di ogni cosa».
E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di en­trare nel suo atelier. Era convinto, ribal­tando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movi­menti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei ver­nissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per ar­ricchire l’esposizione». Anche la differen­za di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena venti­sei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia ma­dre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno».
Anche la quotidianità del piccolo Clau­de non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io ama­vo rompere le automobili per vedere co­me erano fatte. Un giorno cercavo dispe­ratamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vi­di incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capa­cità di ridare vita a cose morte. Fui testi­mone a Vallauris di un altro piccolo mira­colo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma».
Il senso dell’umorismo, fino all’irrive­renza, era un tratto particolare del suo ca­rattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guer­nica .
Alcuni ufficiali nazisti vedendo la ri­produzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scop­piò con la morte di Stalin: Pablo lo dipin­se giovane e mandò su tutte le furie i diri­genti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella li­bertà dei popoli».
Tra i ricordi, occupano un ruolo fonda­mentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di cono­scere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rappor­to speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tes­sevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio es­sere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissi­mi nuovi quadri che non avevo ancora vi­sto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era an­che cosciente del fatto che i giovani, libe­ri da pregiudizi intellettuali, potevano es­sere i suoi migliori interlocutori. Poi, gra­zie anche ai consigli di mia madre, cam­biai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piaceva­no ».
Pur respirando l’arte ogni giorno, Clau­de non ha mai pensato di seguire le or­me del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gi­gantesca. Per tutta la vita Picasso ha so­stenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fidu­cia nella scuola, insegna soprattutto la ri­petizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio non­no, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Par­tire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionar­li, farli esplodere».
I ricordi dei momenti feli­ci non cancellano però le sof­ferenze. «Ho vissuto con do­lore la separazione dei genito­ri. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vede­vo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande fe­sta. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudi­ne. E talvolta lo aiutavo nelle scul­ture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due fi­gli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra fami­glia era ancora tutta da immaginare».
Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indi­rettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allu­de anche alla separazione dalla sua pri­ma moglie, Olga. Lui si vede come un mo­stro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interes­santi pure le allegorie del pittore: gli ar­lecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la so­litudine dell’artista, la sua emarginazio­ne. Un uomo celebrato da tutti, ma pro­fondamente cosciente delle tristezze del­la vita e delle angosce che comporta qual­siasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pub­blicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».

ATTRIBUTI ICONOGRAFICI DEI PRINCIPALI SANTI

ATTRIBUTI ICONOGRAFICI DEI PRINCIPALI SANTI
Agnese: giovane con agnello ai piedi o in braccio (per assonanza con il nome) talvolta ha il corpo coperto da lunghe chiome poiché, durante le persecuzioni di Diocleziano, nel 305, viene condotta nuda al patibolo, ma Dio le fece crescere i capelli così lunghi da coprirle tutto il corpo.

Agostino: vestito da vescovo e intento nello studio.

Andrea: con croce a X, detta appunto croce di sant’Andrea, a volte con rete e pesci (pescatore)

Anna: donna anziana con manto verde, con Maria bambina.

Carlo Borromeo: in abiti da cardinale, con naso adunco, talvolta con corda al collo, simbolo di penitenza.

Caterina d’Alessandria: nobile, spesso con corona, con la ruota del martirio e, a volte, la palma, la spada con cui venne decapitata e l’anello del matrimonio mistico. Spesso rappresentata in disputa tra i dottori.

Caterina da Siena: con abito delle domenicane e stimmate, a volte con croce in mano, giglio e libro.

Elena: con abiti imperiali, croce e chiodi della croce, un modellino di chiesa in ricordo della fondazione della chiesa della Natività a Betlemme e del Santo Sepolcro.

Elisabetta: anziana, in genere accompagna Giovanni Battista bambino.

Francesco d’Assisi: con saio bruno e cingolo, con stimmate, spesso con in mano un crocifisso.

Gabriele Arcangelo: con giglio portato alla Vergine, o lunga bacchetta, talvolta con diadema.

Gerolamo: monaco ed eremita (per 5 anni visse nel deseeto), con barba, a volte rappresentato seminudo e con una pietra che si batte il petto davanti al crocifisso; con il leone, il teschio, la clessidra, il libro; talvolta con abito e cappello rosso da cardinale (segretario papale).

Giorgio: cavaliere con spada e lancia con cui sconfigge il drago.

Giovanni Battista: eremita vestito di pelli, con agnello (per la frase che pronunciò quando vide Gesù, “Ecco l’agnello di Dio”) e croce, spesso con cartiglio. Di circa sei mesi più grande di Cristo, figlio di Elisabetta, cugina di Maria. Battezzò Cristo nel Giordano e morì decapitato da Erode che cedette alle richieste di Salomè, figlia di Erodiade (moglie del fratello di Erode e convivente di Erode stesso) che chiese la testa del Battista su un piatto d’argento.

Giovanni Evangelista: giovane imberbe con aquila e libro; a volte con calice e serpente ( costretto a bere un veleno per non aver sacrificato agli dei, benedisse il calice da cui uscì un serpente). Presente con Pietro e Giacomo alla Trasfigurazione sul monte Tabor. Fu l’unico discepolo a non abbandonare Gesù nella crocifissione rimanendo fino alla fine sotto la croce. Scrisse uno dei Vangeli e il libro dell’Apocalisse.

Giuseppe: uomo maturo o anziano, con bastone fiorito e strumenti del falegname.

Lorenzo: diacono con dalmatica, libro dei salmi, con graticola e ramo di palma.

Luca Evangelista: rappresentato mentre scrive il Vangelo o ritrae la Madonna, con libro, a volte con un bue (il suo Vangelo inizia con sacrificio di Zaccaria). Gli viene attribuito il ritratto dal vero della Madonna.

Lucia: con occhi in un piatto, con palma e spada o pugnale (strumenti del martirio).

Marco Evangelista: età matura, con tunica e pallio, spesso rappresentato mentre scrive il Vangelo; con leone alato (il suo Vangelo inizia con il Battista nel deserto).

Maria Maddalena: elegante, discinta o nuda coperta con lunghi capelli, a seconda se si vuole sottolineare la sua vita dissoluta o da penitente. Con vaso d’unguento (lavò i piedi di Cristo con le proprie lacrime e glieli profumò con un prezioso unguento).


Matteo Evangelista: mentre scrive il Vangelo ispirato dall'angelo; come apostolo i suoi attributi sono il libro e l'alabarda, strumento del martirio. Ebreo che lavorava per i Romani come esattore delle tasse, chiamato da Gesù mentre compiva il suo lavoro.

Michele Arcangelo: alato, in armatura con spada o lancia con cui sconfigge il demonio spesso nelle sembianze di drago; a volte ha in mano una bilancia con cui pesa le anime.

Paolo di Tarso: apostolo vestito di tunica e pallio, volto nobile, con radi capelli e lunga barba nera; suoi attributi sono un libro, in riferimento alle lettere scritte alle prime comunità cristiane, e la spada, strumento del martirio. Ebreo, prese parte alle persecuzioni contro i cristiani. Viaggiando verso Damasco per condurre a Gerusalemme cristiani imprigionati, ebbe una visione che lo accecò momentaneamente e lo portò alla conversione.

Pietro Apostolo: vestito di tunica e pallio, a volte in abiti papali; capelli corti e ricci, barba corta e crespa; suoi attributi sono le chiavi, il libro e il gallo, a volte la barca poiché era pescatore. Inizialmente si chiamava Simone e venne chiamato Pietro da Gesù perché su di lui avrebbe fondato la Chiesa. Morì a Roma, sotto Nerone, crocifisso a testa in giù poiché considerava indegno morire come Gesù.

Raffaele Arcangelo: con grandi ali, accompagna un ragazzo che a volte tiene in mano un pesce; nel Medioevo è vestito da pellegrino. Accompagnò il giovane Tobia a riscuotere un credito al posto del padre divenuto povero e cieco, lo salvò da pericoli, gli fece catturare un grosso pesce; gli fece sposare Sara insegnandogli a liberarla dal demonio che faceva morire tutti i suoi mariti la sera delle nozze (vedova per 7 volte). Riportò gli sposi a casa del padre e Tobia guarì il padre dalla cecità grazie agli insegnamenti dell'arcangelo.

Sebastiano: tra VII e VIII sec. uomo con la croce, la palma o la corona di gloria; nel Medioevo, cavaliere con arco e frecce; dal Rinascimento si diffonde l'immagine del giovane legato e trafitto da frecce; talvolta vestito da soldato; suoi attributi sono arco e frecce. Martirizzato dalle frecce, non morì e venne salvato da Irene, ma Diocleziano lo fece uccidere a bastonate e gettò il suo corpo nella Cloaca Massima; recuperato da un cristiano e seppellito nelle catacombe.

Teresa d'Avila: con saio monacale delle carmelitane; suoi attributi sono la freccia che la ferisce al cuore, il cuore con il nome di Gesù IHS (si definiva Teresa di Gesù) e la colomba simbolo dello spirito santo. Nacque ad Avila nel 1515, a 20 anni si fece carmelitana; ebbe esperienze mistiche, con visioni estatiche documentate. Morì nel 1582.

Tommaso Apostolo: con tunica e pallio; ha come attributi una squadra e una lancia (dal XVII sec. solo lancia), a volte ha in mano una cintura; è l'incredulo e il dubbioso.

 Tommaso d'Aquino: frate domenicano piuttosto in carne (era obeso); suoi attributi sono il sole sul petto, simbolo dell'erudizione, la penna, la colomba dell'ispirazione, talvolta il bue per il soprannome “bue muto”. Nacque nel 1225, formatosi a Montecassino, poi all'università di Napoli dove divenne domenicano, poi andò a Parigi alla facoltà di teologia e lì divenne docente di filosofia e teologia. Scrisse la Summa Teologica: tentativo di dare spiegazione filosofica e fondamento scientifico alla dottrina cristiana.

Veronica: dolente con un panno sul quale è impresso il volto di Cristo coronato di spine; una delle donne che seguiva Gesù sul Calvario e che gli asciugò il volto con un panno quando cadde; sul panno restò impresso il volto del Cristo, esso è conservato a Roma in San Pietro dall'VIII secolo (!!!)

DIZIONARIO ARTE CONTEMPORANEA

DIZIONARIO ARTE CONTEMPORANEA
Action Painting
Il termine Action Painting, "pittura di azione", fu coniato dal critico americano Harold Rosenberg nel 1952 per designare una esperienza d’arte che emergeva nell’ambiente di New York. Riprendeva la lezione storica dell’espressionismo astratto europeo, ma con nuova carica surreale, importata da autori come Hans Hoffman e Arshile Gorky. Ne è stato protagonista sin dalla fine di Quaranta Jackson Pollock (morto tragicamente nel 1956, a 44 anni). Stendeva per terra grandi tele e vi faceva sgocciolare sopra, con gesti rapidi e nevrotici, seguendo ritmi impulsivi, colori di vernici industriali. Questa procedura labirintica, detta dripping (lo "sgocciolamento"), realizzava l’esigenza dell’artista di "sentirsi più vicino, quasi parte integrante della pittura". Energiche stesure basate sul nero, con spazzole e cazzuole, praticava invece Kranz Kline, mentre tensione visionaria esprimevano i frammenti composti drammaticamente da Willem De Kooning. Un gesto lento, largo e intenso connota invece i campi cromatici di Mark Rothko. In Europa, tendenza analoga è il tachisme (dal francese "tache", macchia) espresso da artisti come Fautrier, Hartung, Mathieu. Quest’ultimo per esempio schizzava colori contro la tela in velocità: la pittura come gesto senza mediazioni, la vita come tiro al bersaglio.
 Art brut
Sul finire della seconda guerra mondiale, in una Europa dolente di tragedie, l’arte si volse a privilegiare le energie primarie del gesto, la forza magmatica della materia, i liberi istinti creativi. Fu la stagione dell’Informale, che connotò gli anni Cinquanta nel mondo. In quel clima un artista francese, Jean Dubuffet, raccogliendo l’eredità storica del surrealismo - espressionismo, si volge a collezionare disegni di bambini e di malati di mente. Nel 1947 ne organizza una mostra a Parigi, e definisce quella esperienza  spontanea e incontrollata “art brut”,  ovvero “grezza”, “bruta”. Nel contempo egli stesso dipinge quadri che parafrasano le immagini scaturite da simili primitivi impulsi in assenza di cultura e di regole, così come i graffiti sui muri, le scritte nei vespasiani, i disegni delle caverne. L’Art Brut diviene così un movimento con le sue teorizzazioni (raccolte nei “Cahiers de l’art brut”) e i suoi seguaci. Il capofila è ovviamente Dubuffet. Ma vi aderiscono artisti di spicco, come Appel, Jorn, Alechinsky, Corneille, Constant, a loro volta esponenti del gruppo nord-europeo “Cobra”, acronimo delle loro città, Copenaghen – Bruxelles - Amsterdam. L’Art Brut ebbe vita breve. Un suo museo, che conserva anche la collezione di Dubuffet, è sorto in Svizzera, a Losanna.  
 Arte concettuale
L'espressione compare nel 1967 negli Usa, ed è usata da un gruppo di artisti influenzati dal teorico Ad Reinharat. Tra questi artisti ricordiamo J. Kosuth, Lewitt, Huebler, Weiner. Reinharat, particolarmente attivo nel 1969, svolse la sua opera all'interno del gruppo inglese Art Language. L'Arte Concettuale evidentemente si oppone all'arte "oggettuale" ossia ai movimenti del New Dada, della Pop Art e della Mitzmal Art (Arte Povera), rifiutando qualsiasi ricerca estetica e formale essa si rivolge ad una investigazione delle esperienze mentali e alla indagine sulla natura dell'arte stessa; l'opera non è altro che un mezzo visivo per comunicare un atto mentale.
Si è proposto di considerare l'Arte Concettuale "come una corrente squisitamente mentale, di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica più che quello di incarnarsi in un preciso embrione formale, tangibile e decisamente fruibile percettivamente".
 Arte concreta
Il Movimento Arte Concreta (MAC) nasce a Milano nel 1948. Ne sono promotori Gianni Monnet, Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gillo Dorfles. Il gruppo riprende le teorie già enunciate nel 1930 da Theo Van Doesburg in Olanda e nel 1936 dallo svizzero Max Bill. L’arte concreta è, come l’arte astratta, non – figurativa, "aniconica". Però, sostiene il MAC, l’arte concreta non dipende da processi di astrazione dalla natura o da cose viste: si fonda su segni, linee, colori, forme di piena autonomia inventiva. Il MAC conobbe grande espansione anche per il sostegno del più autorevole storico dell’arte del tempo, Lionello Venturi e si collegò a movimenti analoghi europei come il gruppo francese Espace. A Milano vi aderirono fra gli altri Fontana, Sottsass, Nigro, Reggiani, Veronesi, Radice. A Roma Colla, Perilli, Prampolini, Dorazio. A Napoli Barisani, De Fusco, Tatafiore. Intensa fu l’organizzazione di mostre e la produzione di cartelle grafiche, riviste, pubblicazioni. Naturalmente all’interno del MAC si manifestarono varie anime, da quelle interessate a rigori geometrici a quelle che usavano forme e colori più liberi nello spazio, o si spingevano verso il design. Così il Movimento, stretto fra le novità dell’Informale e l’opposizione dei Figurativi, entrò in crisi e si sciolse nel 1958.
Arte Genetica
L'arte genetica, biotech o transgenica, è una delle forme contemporanee di arte che avvicina la sperimentazione genetica e biologica, nel campo della vita artificiale, alla ricerca artistica. Nasce negli anni ‘90 con l’inizio con la ricerca scientifica in campo genetico e con la scoperta del DNA.
L’arte biotech vuole creare la vita artificiale, in forme digitali, dove i processi biologici sono programmabili (Peter Weibel 1993).
I bioartisti utilizzano le conoscenze e gli strumenti scientifici per la creazione di opere d'arte nelle quali il medium utilizzato, la biotecnologia, sia nello stesso tempo il soggetto dell'opera.
I bioartisti hanno alle spalle una formazione scientifica e lavorano a stretto contatto con ricercatori e scienziati che danno supporto alle loro creazioni.
Eduardo Kac (http://www.ekac.org) bioartista brasiliano è il capostipite dell'arte biotech come simulazione digitale. Kac ha creato nel 2000 “Alba” una coniglietta transgenica dall'improbabile colore fluorescente. Nell'opera "The Eight Day", Eduardo Kac, ha utilizzato un gruppo di scienziati dell'Università di Phoenix in Arizona per realizzare un piccolo ecosistema popolato da un robot, da pesci, da topi e piante fluorescenti.
Lo scopo dell'opera e mettere a confronto il mito della creazione originaria con la creazione di natura biotecnologica. Nell'opera Genesis, Kac ha inserito in un batterio una sequenza biblica codificata, quindi le sequenze del dna sono state decodificate e tradotte in suoni; ma il suo interesse principale e' di seguire l'interazione del soggetto trattato con altre popolazioni di batteri. Alcuni artisti dell’arte Biotech sono:
Marion Laval-Jeantet e Benoît Mangin con l'opera "Cultures de peaux d'artistes";
George Gessert pittore americano George Gessert si dedica all'arte genetica dell'ibridazione vegetale;
Joe Davis Americano lavora al Mit di Boston, utilizza il DNA come mezzo di espressione artistica.
 Arte Performativa (Performance Art)
Il termine Performance Art, nato negli anni Settanta, designa una serie di espressioni artistiche prodotte attraverso la danza, la musica, il cinema, il teatro, il video e la poesia.
Quando il performer proviene dal mondo del teatro risultano prevalenti immagine e movimento, quando invece proviene dal mondo della danza prevalgono la parola e la teatralità. Se proviene dal mondo musicale il fattore squisitamente acustico è di gran lunga in secondo piano, o del tutto assente, a vantaggio delle sollecitazioni teatrali, gestuali e visive.
La diffusione del termine "performance" si deve al musicista John Cage nel secondo dopoguerra.
Il termine può essere applicato anche ad eventi e operazioni di fine anni Sessanta, come quelle che fanno capo al gruppo Fluxus e agli happening di Allan Kaprow.
Elementi fondamentali della Performance Art sono il corpo e il comportamento (Body Art), i suoni, l'olfatto e le parole. Con l'uso del corpo come medium artistico la Performance Art si avvicina alla Body Art (Gina Pane, Chrtis Burden, Vito Acconci).
Esponenti delle Performance Art, dagli anni '60 e '70, sono: Robert Fillou, Dick Higgins e Jackson McLow con le performance verbali; Merce Cunningham, Trisha Brown e Lucinda Childs con le performance sinestetiche; John Cage, Terry Riley, La Monte Young e Giuseppe Chiari con le performance acustiche.
 Arte Povera
E’ nel 1976 che il critico Germano Celant forgia il termine "Arte Povera". Con questa accezione lo studioso identifica quegli artisti che lavorano materiali di scarto: carta, stracci, ferro, zinco, pietra; inusuali per le composizioni artistiche, salvo che per alcuni scultori. Ma la portata innovativa dell’Arte Povera risiede nella forma in cui tali materiali sono plasmati. Non si crea con una struttura mimetica, né astratta: l’Arte Povera realizza una fusione tra causalità (o fatalità) della Natura e arbitrio umano.
In altri termini, quando si piegano allo spirito creativo materiali apparentemente inutilizzabili, e quando questi vengono plasmati dall’usura del Tempo e manipolati da una logica umana concreta si parla allora di Arte Povera. Ecco allora che "i poveristi" si appropriano di carta, stracci, materiali lasciati all’incuria, ma soprattutto permettono che nelle loro opere riecheggino altre discipline scientifiche: l’antropologia, l’alchimia, la psicanalisi, la biologia, tutte categorie della conoscenza che affiancano la Storia dell’Arte. Insieme a queste prerogative l’Arte Povera assume in sé anche gli stilemi intellettuali dell’Arte Concettuale, così da integrare alle forme, spesso complesse da decodificare, un significato nascosto e comunque leggibile con i giusti mezzi. Un esempio paradigmatico di Arte Povera sono gli specchi di Michelangelo Pistoletto, dove lo spettatore si riconosce nel quadro-immagine-specchio con una funzione dell’opera verso lo spettatore (e viceversa) di "do ut des".  Artisti italiani che comunicano con l’Arte Povera sono: Gilberto Zorio, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Pietro Gilardi, Alighiero Boetti, Emilio Prini, Gianni Piacentino, Paolo Calzolai, Giovanni Anselmo, Mario Ceroli, Jannis Kounnelis, Pino Pascali.
 Arte programmata
Ai primi anni sessanta esplode la cosiddetta arte cinetica e programmata. Gli antecedenti sono lontani, oltre che le sculture in movimento di Calder, va ricordata l'opera di Max Bill, Naum Gabo e Moholy Nagy. Ma è nel "manifesto giallo" del 1955, pubblicato dalla Galleria Denise Renè di Parigi, che il termine di cinetico e cinematico inizia ad essere usato per indicare le specifiche ricerche sulla percezione visiva.
L'arte programmata o cinetica ha rappresentato un sostanziale rinnovamento del fare e dell'intendere estetico contemporaneo, inaugurando una nuova fase del divenire della visualizzazione e ampliando quella sfera della percettività ritenuta prima esclusivo dominio delle discipline scientifiche. Non si muove più da valori dati, ma si tende alla individuazione di valori nuovi. L'arte programmata punta sui processi fenomenici che scaturiscono dalla natura stessa delle cose; del loro intrinseco dinamismo, propone, attraverso realizzazioni ricche di indicazioni prospettiche multiple, una analogia plastica.
 Astrattismo Informale
Sul finire degli anni cinquanta il mondo dell'arte è diviso ancora tra realismo e astrattismo. Il realismo si pone come mimetico della realtà: esso riproduce la figura umana nel rapporto con le cose del mondo naturale. L'astrattismo, matrice di varie correnti, non si riferisce ad un concetto rappresentativo. Il che non significa che esso prescinde o falsifica la realtà che lo circonda, ma solo che rende possibile la considerazione separata delle forme e delle sue componenti, e con questo l'atto della conoscenza. Si tratta di un'operazione grazie alla quale un segno, una figura geometrica, un colore sono scelti e isolati come oggetti di percezione, attenzione, indagine.
Le fasi dell'astrattismo sono l'astrazione lirica, l'astrazione geometrica e infine l'informale. Quest'ultima nasce come reazione alla pittura geometrica e a quella realistica, con finalità di propaganda politica.
 Body Art
Tra il 1973 e il 1974, dall'area inglese, entra nell'uso del linguaggio critico internazionale, l'espressione body art per indicare tutto quel complesso di esperienze, ricerche, proposte, che hanno come elemento costante il riferimento al corpo dell'uomo, visto alternativamente come oggetto su cui compiere azioni o come soggetto che si muove nello spazio e circoscrive eventi.
Un numero sempre maggiore di pittori e scultori contemporanei ricorre all'uso del corpo come linguaggio.
Come Antonin Artaud in campo teatrale, questi artisti si impegnano nella ricerca e nella perlustrazione delle infinite possibilità di conoscenza del corpo ed entrano nella messa in scena artistica senza utilizzare un personaggio ma essendo loro stessi il personaggio e subendo su di sé le proprie elaborazioni artistiche. Ogni cosa diviene una possibilità di esperire, una foto, una radiografia del proprio cranio, la propria voce, sono tutti elementi da rielaborare ed esaminare.
Alcuni artisti praticano un camuffamento, uno spostamento del materiale personale, altri invece ne fanno esplicito riferimento. Un elemento caratteristico delle opere d'arte legate a questo movimento è l'ansia. Il sentimento ansioso sottende tutte le elaborazioni artistiche come una sorta di leit motiv, un assillo attraverso il quale si estrapolano i sentimenti di angoscia dell'essere al mondo, e d'impossibilità di porsi in reale rapporto dialettico con se stessi.
 Fluxus
"Fluxus esisteva prima di avere il suo nome e continua a esistere oggi come forma, principio e modo di lavorare", così dichiara Dick Higgins, uno dei protagonisti di Fluxus, chiamato a raccontare la sua esperienza. Nel settembre 1962 George Maciunas organizza il primo “Fluxus”. A lui si deve la scelta del termine derivante dal latino che significa diverse cose tra cui scorrere, ondeggiare in libertà, infiltrazione, fugace. Fu questo architetto ad ideare la manifestazione nella quale artisti americani ed europei, che lavoravano in modo simile, potessero presentare una diversa modalità di fare arte, usando nuove connessioni tra musica, poesia, arti visuali, danza, teatro, aprendosi a una multiformità di generi. Fluxus fu costituito da persone di diversa nazionalità, provenienza culturale ed esperienze artistiche diverse; i suoi componenti vi entravano e uscivano fluidamente e fluidamente si spostavano dall'Europa agli Stati Uniti. Nel 1963 Maciunas assegnò a ogni Fluxus-artista un codice in lettere e iniziò a raccogliere nuovi materiali per pubblicare la rivista "Fluxus". Maciunas tracciò diagrammi (1966) per definire l'albero genealogico di Fluxus, le sue diramazioni e connessioni con altre discipline e le sue origini storiche che venivano individuate in Marcel Duchamp e Dada, nel teatro futurista e in quello che viene definito Bruitismo, e poi John Cage, lo stile HaiLu, la Non-Arte e la Borderline art, il Vaudeville e Charlie Chaplin. Nel suo scorrere leggero e fugace Fluxus intendeva instaurare tra arte e vita una forte relazione.  Le cose quotidiane, i gesti, le azioni più semplici come respirare, fumare o sedersi su una sedia (Brecht) diventano opere fluxus e come in un ready-made vengono estratte dalla realtà del quotidiano per entrare nell'evento fluxus.
 Graffitismo
I graffiti di cui si parla sono grafismi, grafemi, graffi, urticazioni, scalfittura, arroncigliature, lacerazioni del mondo o della superficie su cui si interviene: sono grafospasmi d'amore.
A New York, nel '72, varie bande di giovanissimi cubani, greci, neri, portoricani tracciarono lettere e incisero scritte, con i colori delle bombolette spray, sulle fiancate dei vagoni della metropolitana, sugli autobus, sui muri delle banche, delle scuole, dei fabbricati. Si trattò di un'invasione rapidissima e massiccia, con modi grafici che sapevano di fumetti e pubblicità ma soprattutto di messaggi cifrati.
Alla fine dello stesso anno, Hugo Martínez, studente di sociologia portoricano chiede all'U.G.A. di disegnare la scenografia di un suo balletto. Da questo momento il fenomeno dei graffiti passa dalle strade al sofisticato giro delle gallerie di Soho.Nel 1982 vengono identificati in Europa i tre più acclamati esponenti Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e George Lee Quinones. È l'ingresso ufficiale del Graffitismo sulla scena dei movimenti di punta. La motivazione di questo movimento sta nel portare una comunicazione selvaggia e spontanea dal segno volatile e secco o duro e rabbioso, irruento e vitalistico.
 Gruppo Cobra
Una singolare operazione di impasto fra visionarietà surrealista e tensione espressionista del gesto e del colore caratterizza l’esperienzadi un gruppo di artisti che si costituì a Parigi nel 1948, sotto la suggestiva sigla COBRA. Risultava dalle prime lettere di Copenaghen - Bruxelles - Amsterdam , le città di origine dei fondatori delmovimento: il danese Asger Jorn, i belgi Christian Dotremont (era un poeta, inventò lui l’acronimo) e Noiret, gli olandesi Karel Appel, Constant, Corneille. Fra gli altri artisti che aderirono, spicca il nome del più giovane Pierre Alechinsky, belga con padre russo. Il gruppo nordico si distaccò dal surrealismo francese guidato da André Breton: il disaccordo verteva sulla politicizzazione imposta dal poeta e teorico del movimento (l’equazione fra rivoluzione linguistica e rivoluzione politica) e sulla concezione del surrealismo come “puro automatismo psichico”. Nel contempo, essi intendevano opporsi alla rigidità dell’astrattismo geometrico diffuso nella scia autorevole dell’olandese Mondrian, come al realismo risorgente dopo la seconda guerra mondiale. Valeva semmai la lezione del grande belga Ensor . Comunque premeva l’esigenza di una pittura liberata da schemi e gabbie teoriche, affidata alla immediatezza fantastica, capace di attingere all’immaginario popolare per far fluire dal vitalismo del mondo animale un fiotto di visioni grottesche, dai colori festosamente stridenti, in composizioni di orchestrato dinamismo. Il collettivo COBRA si avviò con frenetico attivismo, giungendo ad avere una cinquantina di aderenti. Ma ebbe vita breve: già nel 1951 si sciolse. Ogni artista prese la sua strada, guardando anche alla cultura dell’informale che avanzava (Alechinskysi accostò a Pollock, Jorn e Constant confluirono nel Situazionismo).
 Happening
La prima apparizione del termine "Happening" risale al 1959, in un'opera presentata alla Reuben Gallery di New York, "18 Happenings in 6 Parts", dell’americano di origine russa Allan Kaprow, che ne è anche il coniatore. Si indica da allora, con Happening, qualcosa che accade, che si determina attraverso una struttura a compartimenti.  In ciascuno di questi avviene qualcosa: ogni spazio rappresentato o suggerito nelle opere, è conservato da una isolata condizione autonoma dove ogni evento, ogni azione elementare, può essere legata all’altra in una sequenza o svolgersi nel medesimo istante senza necessariamente dover rispondere ad un rapporto di causa ed effetto.
Si possono, in alcuni casi, verificare circostanze imprevedibili in grado di modificare i risultati dell’azione, nonostante, soprattutto nei primi Happening, gli autori non concedano spazi all’improvvisazione, ritenuta fuorviante.  Ogni elemento della scena, attore compreso, si fa oggetto. Anche il linguaggio verbale viene trascurato, prediligendo l’uso di rumori e suoni.
Oltre a Kaprow, altri autorevoli artisti che hanno lavorato con l’Happening sono Claes Oldenburg, Red Grooms, Jim Dine e Robert Whitman.
Hacker Art
L’hacker è, notoriamente, il “pirata” che s’introduce nella rete, a scopi di eversione del sistema informatico. A quella esperienza ribellistica, mausata con valenza positiva, si rifà il termine “Hacker Art” coniato nel 1989 da Tommaso Tozzi, studioso italiano di nuove culture e tendenze estetiche, che è stato fra i pionieri della Net Art, ovvero la sperimentazione di nuove modalità di comunicazione creativa mediante Internet. Tozzi che insegna all’Accademia di Carrara e all’università di Firenze, ha elaborato una idea di arte come “forma propositiva e non distruttiva di democrazia dell’informazione e della comunicazione”. Lo sudioso sostiene l'idea di un'arte interattiva, senza copyright, no-profit, intesa a creare e far circolare in rete liberamente informazioni (anzi: “controinformazioni”) dati, testi, immagini, “creazioni individuali e collettive”. Un “sistema aperto” e in progress che produce non una offerta di “prodotto” finito ma l'attivazione di processi autogestiti. Evidenti le radici “politiche” della proposta (la cultura anarchica-libertaria e dei Centri Sociali) ed estetiche (il Dada storico, Fluxus, Happening). Fra le iniziative attivate, la BBS Hacker Art - una sorta di banca dati (1990), Strano Nettwork (1994), gli Hackmeeting (dal 1998) con proprio sito, la mostra AHA (Activism – Hacking – Artivism) alla Sapienza di Roma, nel 2002.  
Iperrealismo
Sembra rifarsi alla tradizione della pittura cosiddetta “à trompe l’oeil”, la pittura che “inganna l’occhio” col suo estremo mimetismo, la tendenza che apparve in America negli anni Settanta sotto la dizione di “iperrealismo”. In realtà si tratta di un’arte che nasce dalla cultura pop, cioè dalla sensibilità diffusa per un immaginario alimentato dalla comunicazione da “grandi magazzini” e dalla denuncia di disadorna quotidianità. Così si afferma una pittura che simula con la sua manualità l’esattezza tecnologica della fotografia, per cui si parla anche di “fotorealismo” (oggi praticato spesso nella pittura su basi digitali). Primo campione è stato Chuck Close, autore di ritratti e di autoritratti anche in formato gigante. Altri esponenti del movimento: Richard Estes, Ralph Goings, Malcolm Morley, e in Europa il tedesco Gert Richter. Nel contempo si sono moltiplicate le prove di una “scultura” che, utilizzando nuovi materiali plastici e resine, realizza manichini – nudi, di solito - di  esasperata resa illusionista: così virtuosa da trasmettere sensi di gelo, inquietudine, allucinazione. E dunque, appunto, realismo che viene travalicato e spiazzato. Maggiori esponenti della scultura iperrealista sono Duane Hanson e John De Andrea, anche loro statunitensi, e l’inglese Ron Mueck.   
 Land Art
L'espressione, così come i sinonimi Earth Art o Earth Work, si afferma negli Usa verso la fine del decennio 1960-1970 per designare le ricerche "operative" impegnate in diretti interventi sul paesaggio e sulla natura. La Land Art, "come l'arte dei giardini in altri tempi, interviene nel paesaggio con intenzioni estetiche, proprio per produrre un mutamento nella struttura di esso e per osservarne sperimentalmente i risultati". Spesso gli interventi sono registrati tramite filmati, videotape e fotografie. Al fondo delle motivazioni della Land Art si trovano preoccupazioni ecologiche. Non è un caso che in italiano la Land Art sia stata definita Arte ecologica. Le preoccupazioni ecologiche sono dirette ad una salvaguardia della natura, che si attua con un ritorno ad una cultura primigenia, contrapposta alla pseudo cultura contemporanea.  Secondo Dorfles la Land Art interviene sulla natura "non in modo edonistico e ornamentale ma per quello che potremmo definire una presa di coscienza dell'intervento dell'uomo su elementi che presentano un ordine naturale e che, da tale intervento, sono sconvolti ed incrinati".
 Mail Art
La mail-art, o "arte postale" è, più che una tendenza artistica, una esperienza nata dalla costola dell’arte di comportamento e concettuale degli anni Sessanta: in particolare dallo spirito del gruppo Fluxus, il vivace movimento internazionale che si distinse per una serie di azioni, interventi, creazioni di spirito neodadaista. Da Fluxus viene l’americano Ray Johnson, che nel 1962 mandò per posta i suoi lavori nel mondo ("Add to and return to") e fondò la New York Corrispondance School of Art. scuola d’arte "per corrispondenza" nella quale non solo gli elaborati spediti per posta, ma le buste, i francobolli, i timbri finirono per confluire nell’operazione artistica. Ma è stato uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale americana, On Kawara, a conferire aura di progettualità ad una intuizione nata come gioco eversivo ai margini del sistema: con le operazioni "I got up" del 1969 (cartoline postali inviate tutti i giorni per 4 mesi ad artisti, critici, amici, con l’indicazione dell’ora in cui si era alzato da letto) e "I am still alive" del 1970 (telegramma inviato a Sol Lewitt, che ne trasse 74 variazioni). In questo modo la mail art si precisava come l’ala più mobile e più "democratica", per così dire, di un’arte che rifiutava gli oggetti per affidarsi a messaggi immateriali, ad operazioni sul linguaggio della comunicazione. Di qui una vasta diffusione della mail art, con la nascita di gruppi in relazione, la costituzione di archivi. Una crescita che ha resistito alla crisi della cultura concettuale negli anni Ottanta: sia per incroci con altre esperienze come la poesia visiva, sia avvalendosi di nuove tecnologie della comunicazione, come la fotocopiatrice. Ma soprattutto il fax (tanto che è nata una sottospecie della mail art, la fax art con i suoi operatori e le sue manifestazioni). Nuovo impulso peraltro ha ricevuto la mail art da Internet. Infatti la posta elettronica, abolendo distanze spaziali e temporali, arricchendo i messaggi con gli ipertesti, ha consentito alla mail art un salto di qualità anche concettuale. In sostanza essa è oggi più che una variante forte della net art, ne costituisce un pilastro. Lo dimostrano le operazioni di mail art proposte in grandi mostre internazionali come Documenta a Kassel e Manifesta a Francoforte, con banchi telematici a disposizione anche del pubblico o allestimento di chioschi per la ricezione-diffusione dei messaggi. Ne esce rafforzata la motivazione originaria di questa esperienza: quella di proporre un’arte diffusa fuori dagli schemi del sistema, accessibile a tutti, che offre più che opere e prodotti, processi mentali, stimoli creativi, scambi di idee. Un’idea forse effimera dell’arte, ma ben a passo coi tempi. E col suo pedigree storico: le radici della mail art sono infatti anch’esse da ricercare nelle avanguardie dadaiste e futuriste del primo Novecento.
 Metafisica
Data ufficiale di nascita della pittura metafisica – uno degli eventi più significativi nell’arte e nella cultura del Novecento europeo - è il 1917: il primo conflitto mondiale era ancora in corso quando Giorgio De Chirico e Carlo Carrà si incontrarono nell’ospedale militare di Ferrara. Già da diversi anni De Chirico - tornato in Italia dopo gli studi a Monaco di Baviera, dove aveva subito l'influenza del simbolismo tedesco di Bocklin e Klingere e delle letture di Nietzsche - aveva dato avvio a una pittura visionaria che anticipava il surrealismo e rompendo l’ordine logico di rapporti fra le immagini, esplorava il mistero e la malinconia di spazi urbani solitari o abitati da statue viventi e da manichini senza volto. E' questa la sostanza di una pittura che intendeva andare “al di là delle cose fisiche”, per evocare enigmi e smarrimenti della vita, sensi riposti, nostalgie e alienazioni. Un'arte che divenne movimento dopo il 1918, quando iniziarono a confluire attorno al suo grande protagonista e (per breve tempo) al comprimario Carrà, gli apporti personali di altri autori. Molto importante anche sul piano teorico e letterario è stato il contributo di Alberto Savinio, fratello di De Chirico. Al movimento aderirono in varia misura Giorgio Morandi, Mario Sironi, Massimo Campigli, Felice Casorati.Minimalismo
Movimento conosciuto anche attraverso l'accezione di "Strutture Primarie", nasce in America nella seconda metà degli anni '60 integrando, in un percorso nato dalla negazione, le simbologie lessicali della Pop Art e della Op Art. Della Pop conserva ed esaspera le sproporzioni della superficie, mentre della Op recupera l'analisi geometrica, pur dedicando maggiore attenzione al risultato formale. Quasi sempre sono sculture essenziali nelle sagome e nei colori, più determinate al turbamento sensibile dello spazio circostante che ad isolarsi nella propria identità, circoscrivendo lo spazio tematico ad una sintesi svolta tra architettura, pittura ed ambienti, coinvolgendo l'osservatore nell'opera stessa. Spazio, allora, come ubicazione di un elemento tra gli altri; geometria come rapporto tra gli insiemi; ordine come rapporto di regole in spiegazione ai parametri di equilibrio, simmetria e proporzione stabiliti intorno agli oggetti. Tra i pionieri del Minimalismo, troviamo gli americani Tony Smith, Bob Morris, Dan Flavin. Gli inglesi Anthony Caro, William Tucker, Philip King, Richard Smith, invece, sono i rappresentanti del nuovo impulso creativo. Anche in Italia questa cornice espressiva trova tra i suoi esponenti con Rodolfo Aricò, Maurizio Mochetti, Gianfranco Pardi, Renato Barisani e Nicola Carrino.
 Movimento Arte Concreta
Nel 1948 un gruppo di intellettuali ed artisti fondò a Milano il Movimento Arte Concreta. Teorico del movimento, Gillo Dorfles, noto critico e studioso, allora anche pittore. Tra i fondatori anche artisti come Bruno Munari - uno dei padri del nuovo design italiano, Nigro, Veronesi, Soldati, Monnet e, per breve tempo Lucio Fontana. Aprendosi alle correnti europee più avanzate di arte contemporanea, gli artisti del MAC si schieravano con i sostenitori di un’arte aniconica, cioè "non- figurativa", prendendo tuttavia le distanze anche dall’ala storica dell’astrattismo. La differenza era concettualmente sottile. L’astrattismo storico del primo Novecento (rappresentato da artisti di diversa ispirazione come Kandinsky e Mondrian) muoveva dal rapporto con la realtà esterna, la natura, il paesaggio, gli oggetti, per un processo di analisi e di riduzione alla loro essenza di forme, colori, materie, ritmi, rapporti. Al contrario dell’arte astratta, l’arte concreta proponeva immagini di forma-colore di pura invenzione ed elaborazione dell’artista, indipendenti da suggestioni della realtà o da significati simbolici. Arte "concreta" significa arte autosufficiente, non dipendente da fonti ad essa esterne. In questo senso era stata già teorizzata nel 1930 dall’olandese Theo Van Doesburg, già esponente di De Stjil ("Manifesto dell’Arte Concreta") e nel 1936 dall’artista svizzero Max Bill, dando luogo alla produzione di quadri di grande purismo formale, con ritmi di partitura geometrica. In Italia, il primo a rilevare la differenza e a farsene promotore fu lo storico dell’arte Lionello Venturi, ispiratore di  "Forma 1", un gruppo romano contemporaneo al MAC milanese, a cui aderirono artisti come Dorazio e Perilli. A Firenze intanto veniva redatto il Manifesto dell’Astrattismo classico che esprimeva posizioni analoghe anche se con definizioni ambigue.
Al di là delle sofisticazioni teoriche, quel che accomunava i diversi fermenti era una concezione antinaturalista e antisurrealista dell’arte, intesa come modello progettuale in grado di "mettere ordine" idealmente in una società che si preparava a vivere il boom socio-economico degli anni Cinquanta- Sessanta. Modelli storici di riferimento erano il costruttivismo russo dopo la Rivoluzione di Ottobre, il Bauhaus tedesco con la sua utopia riformistica, e lo stesso Mondrian maturo, il profeta dell’arte come "armonia realizzata". Infatti il MAC affermava anche la "sintesi delle arti" fra arte, architettura, design: Mario Ballocco, uno dei componenti del gruppo, avrebbe condotto una indagine sistematica e scientifica del colore (cromatologia). Una nuova manifestazione di vitalità dell’arte concreta si ebbe dopo gli anni Cinquanta dominati dall’espressionismo astratto, dall’action painting, dall’informale, dall’art brut, manifestazioni di arte non figurativa, ma all’insegna di un individualismo esasperato, irrazionale, gestuale. Gli studi tedeschi di Rudolf Arnheim sulla teoria della forma (Gestalt) e l’avanzante società tecnologica determinarono una ripresa di formalismo geometrico e razionalizzante, che si diramò in numerose correnti: pittura monocroma (specie in Usa), optical art, neocostruttivismo, arte cinetica, arte ghestaltica (in Italia sostenuta dall’autorità di un altro grande studioso, Giulio Carolo Argan). Fermenti che proseguirono sotto traccia e sotto altre spoglie, dopo la grande ripresa dell’iconismo e della narrazione massmediale con la Pop Art negli anni Sessanta e quel che ne seguì sino ai giorni nostri. Per essi può restare valida nelle sue motivazioni di fondo, la definizione che dell’arte concreta dette Gillo Dorfles: una forma d’arte "basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori".
 Movimento Nucleare
Il Movimento Nucleare nasce a Milano nel 1951 ed è fondato da Enrico Baj, Sergio Dangelo, Joe C. Colombo. Il Movimento ha come principale intenzione quella di studiare ed analizzare i rapporti tra scienza, arte e tecnologia. Il "Manifesto Bum" del 1952, polemico e provocatorio, raffigura l'immagine di un fungo atomico, il potere distruttivo dell'energia atomica, e quella di un feto allo stato embrionale, la capacità di rinascita della scienza. Per Baj, Dangelo e Colombo essere "nucleari" significava essere artisti e uomini contemporanei, affermando la loro attualità ed il bisogno di prendere coscienza di un mondo in rapida ed inarrestabile trasformazione. Diversa è invece l'accezione del termine "nucleare", indicato dal futurista Fortunato Depero nel suo "Manifesto della pittura e plastica nucleare" del 1950, o nel caso della "Madonna Nucleare" di Dalì del 1953.
 Net Art
La diffusione planetaria della comunicazione tramite Internet sta facendo emergere (come sempre avviene nella storia quando si affacciano innovazioni o rivoluzioni tecnologiche) forme di linguaggio alternative rispetto alle comuni relazioni "funzionali" messe in pratica grazie al computer. Si va definendo così, da alcuni anni parte a questa parte, la nozione di "net.art". Con questo termine si indicano una serie di esperienze e di operazioni che sfruttano le caratteristiche proprie della comunicazione "in rete". L’interattività, dunque la produzione di messaggi che possono essere continuamente modificati da interventi in tempo reale. L’ipertestualità, cioè la possibilità di combinare e comporre varie forme di scrittura ed immagini, di richiamare testi in interfaccia e di creare "link", collegamenti aperti. Ne consegue che la net.art non produce "opere" ma "sistemi" comunicativi; non ha "autori" in senso tradizionale ma promotori di messaggi che di solito agiscono in gruppo, spesso sotto sigle anonime: non ha luoghi fissi di esposizione o musei nemmeno virtuali, perché appare nomade sugli schermi dei computer in ogni parte del mondo ed in ogni momento. Il "luogo" della net.art potrebbe essere in verità il web, il sito elettronico al cui interno le proposte si condensano e si fissano visivamente. Ma proprio per questo la critica radicale tende a distinguere la net.art dalla web.art, più "statica" e più legata al concetto di "autore".
Distinzioni sottili che tendono comunque ad escludere tutta un’altra serie di esperienze di "arte in rete". A cominciare dalla più "antica", che ha già quasi vent’anni di storia alle spalle: la computer art o arte digitale. Si trattava e si tratta in questo caso di sfruttare le potenzialità "matematiche" dei software per creare immagini virtuali, intervenire su immagini già date e manipolarle, dar vita insomma a tutto il sistema di immaginario degli "effetti speciali" largamente sfruttato anche e soprattutto dal cinema. In questo caso si tratta di "fare arte" secondo logiche formali tradizionali, seppure aggiornate e scaltrite tecnologicamente. Ancor più netta, ed ovvia, è la distinzione con l’uso della rete per scandire, archiviare e diffondere immagini d’arte prodotta "altrove", antica o contemporanea che sia, ivi comprese le ricostruzioni virtuali di musei o luoghi d’arte .
Per tornare alla net.art, occorre sottolineare che i sistemi di comunicazione prodotti non hanno alcuna intenzione "artistica" in senso classico, né connotazione estetica. E’ un’arte "che prescinde dall’arte", nel solco peraltro della lunga storia delle avanguardie moderne che va da Duchamp all’arte concettuale. Quelli che vengono messi in rete sono concetti strutturali che investono di solito, criticamente, la vita sociale, politica, economica oppure mettono in discussione od esplorano le modalità infinite del "mettersi in relazione": Si tende a definire così una "cultura della rete" alternativa ai sistemi dominanti, sia sul piano politico che sul piano del controllo della comunicazione. Non a caso, all’origine della net.art ci sono anche le prove degli hackers, dei pirati informatici che s’inseriscono nelle "stanze di comando" della comunicazione elettronica.
La Net Art ha comunque già non solo una serie di "operatori" nel mondo (soprattutto in Europa e Stati Uniti) ma anche luoghi d’incontro e di "esposizione". Il punto di riferimento internazionale più noto è l’Ars Electronica Center di Linz in Austria, sorto vent’anni fa, che organizza un premio annuale, il Prix Ars Electronica con diverse categorie di segnalazione delle varie forme di creatività "hitech". Ma la Net.Art ha fatto il suo ingresso anche in molte rassegne d’arte contemporanea, come Documenta a Kassel in Germania dal 1997 e la Biennale d’arte americana del Whitney Museum a New York dal 1999. Altra manifestazione specifica è il festival Transmediale.01 di Berlino, che attribuisce premi per "software art".
 Nouveau Realisme
La formula “Nouveau Realisme” fu inventata nel 1960 dal francese Pierre Restany, brillante figura di critico militante, per designare le esperienze di un gruppo di giovani artisti che rappresentavano secondo lui l’alternativa europea al New Dada americano, preludio alla Pop Art. “Nuovo realismo” perché questi artisti riprendono la lezione interrotta degli storici “ready made” di Duchamp, l’assunzione dadaista dell’oggetto nel sistema dell’arte. Ricominciano a prelevare frammenti concreti dalla vita quotidiana, ma con fantasia enfatica, ironia aggressiva. Arman accumula gli oggetti banali in serie. César schiaccia lamiere di automobili. Cristo “impacchetta” cose comuni (e poi, in un crescendo gigantista, interi monumenti o edifici). Hains straccia manifesti mentre l’italiano Mimmo Rotella che li reincolla. Spoerri fissa resti di cena sulle tavole imbandite e le appende. Yves Klein fa imprimere sulle tele corpi di modelle nude impregnate di colore blu… Dunque una presa di possesso irriverente del territorio senza confini fra arte e vita. Così ancora Tinguely realizza con rottami riciclati sculture semoventi, sussultorie, sonore, Niki de Saint Phalle (nome d’arte) plasma sculture di esagerata, policroma sessualità, Raysse gioca con immagini kitsch. Una carica che non si è ancora esaurita.


 Nouvelle Tendence
Il termine viene introdotto nel '61 dal critico serbo Matko Mestroviæ teorico anche del gruppo "Zagreb". La Nouvelle Tendence nasce in un periodo in cui Zagabria, capitale della Croazia diventa il polo di attrazione per artisti di tutto il mondo. A Zagabria si tiene la prima mostra della Nouvelle Tendence, alla quale partecipano anche artisti del gruppo Zero, che Mestroviæ organizza per il Museo d'Arte Contemporanea. Nouvelle Tendence incentra l'opera sul moto libero e programmato meccanicamente, a livello percettivo sfrutta le moderne cognizioni neurofisiologiche per influenzare l'osservatore. Alla base della teoria di Nouvelle Tendence c’è un linguaggio non solo artistico, ai confini delle varie discipline, che immette l'opera nel contesto sociale, avvicinadola alla scienza, alla meccanica, alla tecnologia.
 Optical Art
Nasce alla fine degli anni Cinquanta, e si sviluppa per tutti i Sessanta e oltre, una vasta e articolata tendenza di arte internazionale ispirata alla nuova scienza della percezione. Essa riprende le esperienze di estensione tecnologica dello sguardo già affrontate nel primo Novecento da Duchamp (i Rotorilievi) e, in ambito Bauhaus  poi esportato in USA, da Moholy Nagy e Albers. Il fenomeno va sotto il nome di Optical Art, abbreviato in Op Art per evidente controcanto alla contemporanea Pop Art. e trova un punto di significativo di manifestazione nella mostra “The Responsive Eye” al Moma di New York nel 1965. Si possono distinguere due aree. Una, più vicina all’ arte di astrazione geometrica, punta sugli effetti di inganno e di vibrazione ottica con combinazioni di segni e colori, per punti, cerchi, strisce, spirali, vortici ecc. o per textures metalliche reagenti alla luce. Un’altra area privilegia dinamismi reali, ottenuti con congegni elettrici o magnetici, con giochi di luci artificiali o animazioni di strutture, che sollecitano spesso l’intervento interattivo del pubblico. Gli artisti op tendono a costituirsi in gruppi. Emergono comunque protagonisti come Vasarely, Soto, Le Parc, Bury, Riley; in Italia (dove si parla anche di arte ghestaltica) Munari, Mari, Alviani, Grignani.
 Patafisica
Patafisica è la "scienza delle soluzioni immaginarie", insieme di principi estetici, letterari e filosofici, ordinato da Alfred Jarry alla fine del XIX secolo. Questi principi costituiscono, anche se presentati senza seguire un ordine prestabilito, il materiale dei suoi testi più conosciuti: "Ubu Roi" (1896) e "Gesta e opinion del dottor Faustroll, patafisico" (1898). Artisti come Paul Gauguin, Pablo Picasso, e successivamente il surrealista Andrè Breton, furono affascinati dalle idee espresse dalla Patafisica.
Nel 1948 viene fondato a Parigi "Il Collegio di patafisica", articolato secondo una complicata gerarchia di satrapi, reggenti, uditori, creato apposta per fare il verso ai consessi accademici.
Il collegio è retto da un curatore a vita (Faustoll), e rappresentato da un originale vicecuratore, rappresentato da sua magnificenza il coccodrillo Lutembi, proveniente dal lago Vittoria.
Nel 1978 è stato deciso l'occultamento del collegio fino all'anno 2000. Sono stati costituiti alcuni collegi patafisici secondari come quello fondato nel 1964 da Enrico Baj, Virgilio Dagnino, Paride Accetti, Arturo Swarz, oppure quello torinese fondato nel 1979, e quello napoletano nel 1965, voluto da Lucio Del Pezzo.
 Poesia Visiva
La Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale, questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal 1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti musicali. Il più celebre è Giuseppe Chiari, membro del gruppo internazionale Fluxus. Dunque un’arte "totale" che sfrutta le capacità di riflessione della parola e le suggestioni delle immagini. Varie le tecniche, dalla scrittura a mano ai collages fotografici, ai caratteri di stampa e numerosi gli ambiti di ricerca parallela e le relative denominazioni (lettrismo, poesia concreta, mail art, narrative art ecc.) specie nel corso degli anni Settanta. L’emergenza della poesia visiva che sembrava esaurita con gli anni Ottanta, trova oggi nuove strade con la "video – poesia" e la Netart. Esperienze analoghe di uso della scrittura si ritrovano oggi in artiste femministe o politicamente impegnate come Jenny Holzer e Barbara Kruger.
 Pop Art
La definizione di Pop Art (abbreviazione di "popular art") nasce negli anni Cinquanta in Gran Bretagna, in seguito all’attenzione che diversi studiosi e artisti (il principale è Richard Hamilton, con Hockney, Black, Tilson, Kitaj) dedicarono ai linguaggi della comunicazione visiva nella società di massa e nella civiltà delle merci. Ma è sul principio degli anni Sessanta che il movimento assume notorietà internazionale grazie ad un gruppo di artisti americani. Essi assumono a base delle loro opere gli oggetti di consumo e le immagini moltiplicate e stereotipate dei massmedia, della pubblicità, dei fumetti. Fra loro, il più famoso è Andy Warhol, che riprese con procedure fra l’impassibilità e l’ossessione seriale, foto di eventi e personaggi della cronaca o marchi commerciali, come la cocacola. Liechtenstein, Oldenburg, Rosenquist, Wesselmann, Segal, Indiana sono altri protagonisti di un fenomeno complesso che segna un’inversione di tendenza nell’arte del secondo Novecento: una figurazione che ricalca – con diverse modalità critiche e inventive – il flusso freddo dell’ immaginario nella società urbana, tecnologica, massificata. Vi concorrono peraltro artisti che muovono da diverse premesse, ironiche ed emozionali (il "new dada"), come il grande Rauschenberg, Johns e Dine.
 Scuola Romana
Col termine “Scuola Romana” si designa non un movimento teorico o una tendenza, ma il riunirsi di artisti e intellettuali, attivi a Roma fra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, intorno all'idea di pittura come impegno etico e sentimentale. I modelli europei di riferimento erano quelli della pittura espressionista, da Van Gogh ai fauves, ad Ensor: collocandosi in tal modo in area alternativa sia alle avanguardie astrattiste e concettuali, sia al ”ritorno all’ordine” novecentista. Il nucleo storico da cui mosse quella esperienza, nel 1928, era composto da Scipione, Mario Mafai e la moglie Antonietta Raphael, insieme con Capogrossi e Ceracchini, e fu battezzato da Roberto Longhi “scuola di via Cavour”. In seguito questo “espressionismo alla romana” che recuperava il senso drammatico del barocco insieme ad un acceso tonalismo cromatico, si espresse attraverso esperienze individuali, di tipo più intimistico. Del gruppo fecero parte Melli, Cavalli, Omiccioli, Ziveri, Stradone, a cui si affianacrono per per brevi periodi Cagli, Pirandello, Tamburi. Documenti sulle vicende di quel composito ambiente sono raccolti nell’Archivio della Scuola Romana nato nel 1983 per iniziativa di un gruppo di intellettuali fra cui la giornalista Miriam Mafai, figlia del celebre pittore.
 Scuola di Piazza del Popolo
Nei primi anni Sessanta a Roma un nutrito gruppo di giovani artisti, fuoriuscendo dalla stagione breve ma intensa della pittura astratta ed informale, diedero vita a una cultura dell'immagine che intrecciava icone del consumo di massa (nel 1964 era sbarcata alla Biennale di Venezia la Pop Art americana) e citazioni dai movimenti italiani protagonisti del primo Novecento europeo, il Futurismo e la Metafisica. Il gruppo fu definito "Scuola di piazza del Popolo" perché si ritrovava in quella storica zona di Roma dove c'era il caffè Rosati – luogo di incontro quotidiano per letterati e artisti – ma anche la galleria La Tartaruga di Plino De Martiis, e altri punti di riferimento. Mario Schifano fu il capofila di una tendenza artistica che con Festa, Angeli, Mambor, Lombardo, Tacchi, Giosetta Fioroni, Bignardi, propose una sorta di Pop colto all'italiana. Un'altra ala del gruppo che comprendeva Ceroli, Kounellis, De Dominicis, Pascali, Patella, Mattiacci si orientò verso le ricerche oggettuali dando vita ad esperienze riconducibili all'Arte Povera, battezzata così nel 1967 da Germano Celant. Ad una sorta di minimalismo si ispiravano Lo Savio e Uncini. Ulteriori variazioni agirono Mauri, Rotella, Titina Maselli, Pisani, ampliando la variegata area di fermenti che hanno scritto un capitolo nuovo nella storia dell'arte in Italia.
 Spazialismo
Dopo la Seconda guerra mondiale, si affermava in arte un’idea di pittura come gesto che conquista lo spazio reale. Nell’ambito di questo fenomeno, noto come Informale, si colloca lo Spazialismo italiano. Nel 1947 ne fu promotore  a Milano Lucio Fontana. Il primo manifesto del movimento fu sottoscritto da critici e scrittori tra i quali ricordiamo Kaisserlian, Joppolo, Milena Milani. Negli anni successivi si aggiunsero gli artisti Gianni Dova e Roberto Crippa.  Nel 1951 tra i firmatari del "Manifesto dell’arte spaziale" figurano anche De Luigi, Guidi, Peverelli. Tuttavia lo Spazialismo s’identifica col geniale percorso di Fontana, maturato a partire dagli anni Trenta a contatto con i pionieri dell’astrattismo milanese e poi a Buenos Aires ("Manifiesto Blanco", 1946). Per Fontana bisogna esorcizzare l’illusione superficiale dell’immagine sulla tela, conquistare lo spazio "oltre la materia": è questa l'idea fondante dei celebri Tagli e Buchi ( "Concetti spaziali") che suggeriscono una dimensione aldilà della superficie dell’illusione. Fontana userà anche il neon, spingendosi sino alla profezia del "Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione" (1952). In tal modo lo Spazialismo italiano si proietta verso una visione di tipo cosmico-spiritualista, avvicinandosi così alle esperienze di Mark Rothko in America e di Yves Klein in Europa.
 Transavanguardia
Quando, sul finire degli anni ’70, l’arte occidentale avvertì la necessità di ritrovarsi nelle strutture della tradizione, tra l’ironia e il disincanto, si sviluppò una vasta schiera d’autori vincolata ad una determinazione seducente, alla violenta ansia di recuperare l’ordine della pittura di narrazione.
I protagonisti di questo nascente movimento furono Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria e il primo Mimmo Germanà. Cercano, soprattutto, di riallacciare un rapporto con l’arte italiana degli inizi ‘900, con la metafisica di De Chirico e di Carrà, con De Pisis, Sironi, Scipione ed altri come Tamburi e Viani.  Seguiti con interesse da Achille Bonito Oliva e appoggiati dal mercante Emilio Mazzoli, raggiungono in pochi anni un significativo successo negli ambienti internazionali, dove i territori d’arte cari alla Transavanguardia, movimento compiuto, si delineano perfettamente nel ricongiungimento ad una tradizione italica, ai luoghi tipici della pittura e del suo spazio immaginario, alla libertà di riusare, citare e rendere omaggio alle tracce sensibili dell’eredità artistica italiana. Vengono recuperati, appunto, i soggetti classici dell’arte, la natura in particolar modo.  Clemente con il suo genere allucinato, grandioso e puerile; Palladino, perduto in una sovrastruttura arcaica e favolistica al tempo stesso; entrambi, allo stesso modo, rappresentanti di uno sguardo che trova nel vuoto e nell’infinito tutto il piacere della propria insufficienza, che può esprimere catarsi solo davanti alle magnifiche sproporzioni del mondo.
 Video Arte
Nel 1968 il tedesco Gerry Schum iniziò a documentare, con riprese televisive, performances di arte concettuale, povera, di land art, di cui altrimenti non sarebbe rimasta traccia storica oltre l’occasione effimera. L’anno seguente Schum fondò ad Hannover la prima videogalleria, in cui si proiettavano le registrazioni delle azioni eseguite da artisti poi divenuti celebri come Dibbets, Long, Oppenheim, De Maria e poi (dal 1970) di Beuys, De Dominicis, Boetti, Zorio, Anselmo, Gilbert & George. Nasceva così la videoarte, impresa peraltro resa possibile dalla diffusione della handycam, la telecamera portatile e maneggevole, alla portata di tutti. Prima di allora, la stessa esigenza documentaria era stata soddisfatta dai "film d’artista" girati precariamente in 8mm. Un pioniere in Italia fu negli anni Sessanta Luca Patella, al quale si deve fra l’altro lo storico SKMP2 del 1968, in cui sono riprese performance sue, di Kounellis, Mattiacci, Pascali, Sargentini. Ma contestualmente all’esigenza di fissare in memoria visiva l’arte di azione, si proponeva su altro versante la ricerca di un uso alternativo e creativo del linguaggio televisivo. L’uso per nuovi processi estetici del medium tecnologico era stato preconizzato in Italia sin dal 1952, col Manifesto per la Televisione redatto dal gruppo milanese dello Spazialismo (Fontana, Baj, Crippa ecc.). Ma venne dall’America, dove la televisione aveva già una sua storia di pratica diffusione, la prima importante esperienza di manipolazione ed alterazione delle immagini televisive. Ne fu pioniere l’artista di origine coreana Nam June Paik che negli anni Sessanta produsse una serie di video che producevano gli equivalenti di "quadri astratti" con lampeggianti variazioni di colori, composizioni cromatiche elettroniche, ma anche sovrapposizioni incalzanti di immagini tratte dalle comuni trasmissioni (in Europa esperienze di manipolazione delle immagini della cronaca, anche a fini di polemica politica e sociale, furono condotte dal tedesco Wolf Vostell). Un’altra strada fu quella battuta da artisti come Bruce Nauman, che realizzarono azioni ideate in funzione della telecamera, anche per esplorare l’interazione fra corpo agente e spettatori. Da queste premesse, la videoarte ha conosciuto una impetuosa crescita e maturazione, sino a divenire negli anni Novanta un mezzo di espressione prevalente, se non addirittura privilegiato, rispetto alle tecniche tradizionali e manuali dell’arte e rispetto alla stessa fotografia. L’uso sistematico del colore, l’accorciamento della durata di trasmissione, la diffusione di elementi spettacolari di fruizione (videoproiezione su grande schermo, installazione di immagini multiple con televisori o spazi dinamici), l’introduzione di "effetti speciali" grazie alla combinazione col computer e le tecniche digitali: ecco i fattori che concorrono a fare della videoarte non più una esperienza di faticosa fruizione elitaria, ma un linguaggio ad alto potenziale immaginativo, parallelo quasi o alternativo al linguaggio del cinema. Molti video sono infatti ispirati oggi alla evocazione di ministorie ad alta concentrazione emotiva o simbolica (fra gli autori oggi più celebrati, l’iraniana Shirin Neshat). Fra le ormai innumerevoli e qualificate esperienze di videoarte, se ne possono citare almeno due che hanno introdotto elementi nuovi di ricerca, espressione e fruizione, grazie all’intreccio con l’elettronica. La prima frontiera è quella della interattività: le videoimmagini non sono solo da contemplare, ma possono essere modificate dagli spettatori- attori. E’ la strada battuta in Italia dal gruppo Studio Azzurro: situazioni proiettate per terra, sui muri, per aria, su tavoli, si muovono, cambiano, spariscono se il pubblico le tocca, o batte le mani, o vi passeggia su. Su un versante di intenzioni estetiche quasi opposte, ma anch’esse governate da sofisticata tecnologia elettronica, si collocano i video di un artista americano che è considerato oggi il massimo esponente della videoarte, Bill Viola. Egli ha messo a punto composizioni di personaggi che prendono vita sullo schermo lentissimamente, con procedura di ralenti elettronico. Questa tecnica consente all’autore di inventare veri e propri "quadri viventi", spesso ispirati da opere di arte antica, oppure di proporre un pathos di alta concentrazione poetica, fra memoria contemplazione e riflessione, che investe grandi temi spirituali.