«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto salvo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Picasso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni trascorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dall’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pittore: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matrimonio con Olga Kokhlova), è precocemente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rappresentano l’ala femminile della famiglia. Claude, nella sua veste di amministratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picasso administration»: una società che si occupa dei diritti legati all’utilizzo del nome dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’inizio, vivevamo a Parigi in un appartamento- atelier sempre pieno di gente che voleva vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte viene prima di ogni cosa».
E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di entrare nel suo atelier. Era convinto, ribaltando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movimenti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei vernissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per arricchire l’esposizione». Anche la differenza di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena ventisei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia madre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno».
Anche la quotidianità del piccolo Claude non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io amavo rompere le automobili per vedere come erano fatte. Un giorno cercavo disperatamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vidi incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capacità di ridare vita a cose morte. Fui testimone a Vallauris di un altro piccolo miracolo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma».
Il senso dell’umorismo, fino all’irriverenza, era un tratto particolare del suo carattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guernica .
Alcuni ufficiali nazisti vedendo la riproduzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scoppiò con la morte di Stalin: Pablo lo dipinse giovane e mandò su tutte le furie i dirigenti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella libertà dei popoli».
Tra i ricordi, occupano un ruolo fondamentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di conoscere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rapporto speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tessevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio essere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissimi nuovi quadri che non avevo ancora visto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era anche cosciente del fatto che i giovani, liberi da pregiudizi intellettuali, potevano essere i suoi migliori interlocutori. Poi, grazie anche ai consigli di mia madre, cambiai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piacevano ».
Pur respirando l’arte ogni giorno, Claude non ha mai pensato di seguire le orme del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gigantesca. Per tutta la vita Picasso ha sostenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fiducia nella scuola, insegna soprattutto la ripetizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio nonno, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Partire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionarli, farli esplodere».
I ricordi dei momenti felici non cancellano però le sofferenze. «Ho vissuto con dolore la separazione dei genitori. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vedevo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande festa. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudine. E talvolta lo aiutavo nelle sculture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due figli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra famiglia era ancora tutta da immaginare».
Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indirettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allude anche alla separazione dalla sua prima moglie, Olga. Lui si vede come un mostro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interessanti pure le allegorie del pittore: gli arlecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la solitudine dell’artista, la sua emarginazione. Un uomo celebrato da tutti, ma profondamente cosciente delle tristezze della vita e delle angosce che comporta qualsiasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pubblicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».
mercoledì 6 gennaio 2010
PICASSO Corriere della Sera 29.9.09
Corriere della Sera 29.9.09
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine
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