venerdì 8 marzo 2013
Concilio di Trento, Sess. XXV
CONCILIO DI TRENTO
SESSIONE XXV (3-4 dicembre 1563)
oiché
la chiesa cattolica, istruita dallo Spirito santo, conforme alle sacre scritture
e all’antica tradizione, ha insegnato nei sacri concili, e recentissimamente in
questo concilio ecumenico (403) che il purgatorio esiste e che le anime lì
tenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e in modo particolarissimo
col santo sacrificio dell’altare, il santo sinodo comanda ai vescovi che con
diligenza facciano in modo che la sana dottrina sul purgatorio, quale è stata
trasmessa dai santi padri e dai sacri concili (404), sia creduta, ritenuta,
insegnata e predicata dappertutto.
Nelle prediche rivolte al popolo meno istruito, si evitino le
questioni più difficili e più sottili, che non servono all’edificazione, e da
cui, per lo più, non c’è alcun frutto per la pietà. Così pure non permettano che
si diffondano e si trattino dottrine incerte o che possano presentare apparenze
di falsità. Proibiscano, inoltre, come scandali e inciampi per i fedeli, quelle
questioni che servono (solo) ad una certa curiosità e superstizione e sanno di
speculazione.
I vescovi, inoltre, abbiano cura che i suffragi dei fedeli
viventi e cioè i sacrifici delle messe, le preghiere, le elemosine ed altre
opere pie, che si sogliono fare dai fedeli per altri fedeli defunti, siano fatti
con pietà e devozione secondo l’uso della chiesa e che quei suffragi che secondo
le fondazioni dei testatori o per altro motivo devono essere fatti per essi,
vengano soddisfatti dai sacerdoti, dai ministri della chiesa e dagli altri che
ne avessero l’obbligo, non sommariamente e distrattamente, ma diligentemente e
con accuratezza.
Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini.
Il santo sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che
hanno l’ufficio e l’incarico di insegnare, che - conforme all’uso della chiesa
cattolica e apostolica, tramandato fin dai primi tempi della religione
cristiana, al consenso dei santi padri e ai decreti dei sacri concilii, - prima
di tutto istruiscano diligentemente i fedeli sull’intercessione dei santi, sulla
loro invocazione, sull’onore dovuto alle reliquie, e sull’uso legittimo delle
immagini, insegnando che i santi, regnando con Cristo, offrono a Dio le loro
orazioni per gli uomini; che è cosa buona ed utile invocarli supplichevolmente e
ricorrere alle loro orazioni, alla loro potenza e al loro aiuto, per impetrare
da Dio i benefici, per mezzo del suo figlio Gesù Cristo, nostro signore, che è
l’unico redentore e salvatore nostro; e che quelli, i quali affermano che i
santi - che godono in cielo l’eterna felicità - non devono invocarsi o che essi
non pregano per gli uomini o che l’invocarli, perché preghino anche per ciascuno
di noi, debba dirsi idolatria, o che ciò è in disaccordo con la parola di Dio e
si oppone all’onore del solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (405);
o che è sciocco rivolgere le nostre suppliche con la voce o con la mente a
quelli che regnano nel cielo, pensano empiamente.
Insegnino ancora diligentemente che i santi corpi dei martiri
e degli altri che vivono con Cristo - un tempo membra vive di Cristo stesso e
tempio dello Spirito santo (406) -, e che da lui saranno risuscitati per la vita
eterna e glorificati, devono essere venerati dai fedeli, quei corpi, cioè, per
mezzo dei quali vengono concessi da Dio agli uomini molti benefici. Perciò
quelli che affermano che alle reliquie dei santi non si debba alcuna venerazione
ed alcun onore; che esse ed altri resti sacri inutilmente vengono onorati dai
fedeli; o che invano si frequentano i luoghi della loro memoria per ottenere il
loro aiuto, sono assolutamente da condannarsi, come già da tempo la chiesa li ha
condannati e li condanna ancora.
Inoltre le immagini di Cristo, della Vergine madre di Dio e
degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese; ad esse si
deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che
vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o
perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini,
come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli
(407), ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse
rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle
quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di
cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili -
specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle
sacre immagini (408).
Questo, poi, cerchino di insegnare diligentemente i vescovi:
che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le
pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel
ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che
da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono
ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma
anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli
esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro
vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed
amare Dio e ad esercitare la pietà. Se qualcuno insegnerà o crederà il contrario
di questi decreti, sia anatema.
Se poi, contro queste sante e salutari pratiche, fossero
invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente che essi siano
senz’altro tolti di mezzo. Pertanto non sia esposta nessuna immagine che esprima
false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori.
Se avverrà che qualche volta debbano rappresentarsi e
raffigurarsi le storie e i racconti della sacra scrittura - questo infatti giova
al popolo, poco istruito - si insegni ad esso che non per questo viene
raffigurata la divinità, quasi che essa possa esser vista con questi occhi
corporei o possa esprimersi con colori ed immagini.
Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle
reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia
eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da
non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza. Così pure, i fedeli
non approfittino delle celebrazioni dei santi e della visita alle reliquie per
darsi all’abuso del mangiare e del bere, quasi che le feste dei santi debbano
celebrarsi col lusso e la libertà morale. Da ultimo, in queste cose sia usata
dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente appaia disordinato, niente
fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla casa di Dio,
infatti, si addice la santità (409).
E perché queste disposizioni vengano osservate più
fedelmente, questo santo sinodo stabilisce che non è lecito a nessuno porre o
far porre un’immagine inconsueta in un luogo o in una chiesa, per quanto esente,
se non è stata prima approvata dal vescovo; né ammettere nuovi miracoli, o
accogliere nuove reliquie, se non dopo il giudizio e l’approvazione dello stesso
vescovo. Questi, poi, non appena sia venuto a sapere qualche cosa su qualcuno di
questi fatti, consultati i teologi ed altre pie persone, faccia quello che
crederà conforme alla verità e alla pietà. Se infine si presentasse qualche
abuso dubbio o difficile da estirpare o se sorgesse addirittura qualche
questione di una certa gravità intorno a questi problemi, il vescovo, prima di
decidere aspetti l’opinione del metropolita e dei vescovi della regione nel
concilio provinciale. Comunque, le cose siano fatte in modo tale, da non
stabilire nulla di nuovo o di inconsueto nella chiesa, senza aver prima
consultato il santissimo pontefice romano,
Picasso, il gigante della mia infanzia
Corriere della
Sera 29.9.09
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine
«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto salvo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Picasso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni trascorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dall’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pittore: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matrimonio con Olga Kokhlova), è precocemente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rappresentano l’ala femminile della famiglia. Claude, nella sua veste di amministratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picasso administration»: una società che si occupa dei diritti legati all’utilizzo del nome dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’inizio, vivevamo a Parigi in un appartamento- atelier sempre pieno di gente che voleva vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte viene prima di ogni cosa». E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di entrare nel suo atelier. Era convinto, ribaltando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movimenti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei vernissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per arricchire l’esposizione». Anche la differenza di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena ventisei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia madre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno». Anche la quotidianità del piccolo Claude non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io amavo rompere le automobili per vedere come erano fatte. Un giorno cercavo disperatamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vidi incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capacità di ridare vita a cose morte. Fui testimone a Vallauris di un altro piccolo miracolo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma». Il senso dell’umorismo, fino all’irriverenza, era un tratto particolare del suo carattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guernica . Alcuni ufficiali nazisti vedendo la riproduzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scoppiò con la morte di Stalin: Pablo lo dipinse giovane e mandò su tutte le furie i dirigenti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella libertà dei popoli». Tra i ricordi, occupano un ruolo fondamentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di conoscere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rapporto speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tessevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio essere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissimi nuovi quadri che non avevo ancora visto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era anche cosciente del fatto che i giovani, liberi da pregiudizi intellettuali, potevano essere i suoi migliori interlocutori. Poi, grazie anche ai consigli di mia madre, cambiai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piacevano ». Pur respirando l’arte ogni giorno, Claude non ha mai pensato di seguire le orme del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gigantesca. Per tutta la vita Picasso ha sostenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fiducia nella scuola, insegna soprattutto la ripetizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio nonno, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Partire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionarli, farli esplodere». I ricordi dei momenti felici non cancellano però le sofferenze. «Ho vissuto con dolore la separazione dei genitori. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vedevo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande festa. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudine. E talvolta lo aiutavo nelle sculture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due figli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra famiglia era ancora tutta da immaginare». Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indirettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allude anche alla separazione dalla sua prima moglie, Olga. Lui si vede come un mostro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interessanti pure le allegorie del pittore: gli arlecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la solitudine dell’artista, la sua emarginazione. Un uomo celebrato da tutti, ma profondamente cosciente delle tristezze della vita e delle angosce che comporta qualsiasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pubblicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine
«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto salvo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Picasso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni trascorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dall’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pittore: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matrimonio con Olga Kokhlova), è precocemente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rappresentano l’ala femminile della famiglia. Claude, nella sua veste di amministratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picasso administration»: una società che si occupa dei diritti legati all’utilizzo del nome dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’inizio, vivevamo a Parigi in un appartamento- atelier sempre pieno di gente che voleva vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte viene prima di ogni cosa». E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di entrare nel suo atelier. Era convinto, ribaltando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movimenti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei vernissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per arricchire l’esposizione». Anche la differenza di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena ventisei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia madre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno». Anche la quotidianità del piccolo Claude non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io amavo rompere le automobili per vedere come erano fatte. Un giorno cercavo disperatamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vidi incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capacità di ridare vita a cose morte. Fui testimone a Vallauris di un altro piccolo miracolo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma». Il senso dell’umorismo, fino all’irriverenza, era un tratto particolare del suo carattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guernica . Alcuni ufficiali nazisti vedendo la riproduzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scoppiò con la morte di Stalin: Pablo lo dipinse giovane e mandò su tutte le furie i dirigenti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella libertà dei popoli». Tra i ricordi, occupano un ruolo fondamentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di conoscere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rapporto speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tessevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio essere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissimi nuovi quadri che non avevo ancora visto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era anche cosciente del fatto che i giovani, liberi da pregiudizi intellettuali, potevano essere i suoi migliori interlocutori. Poi, grazie anche ai consigli di mia madre, cambiai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piacevano ». Pur respirando l’arte ogni giorno, Claude non ha mai pensato di seguire le orme del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gigantesca. Per tutta la vita Picasso ha sostenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fiducia nella scuola, insegna soprattutto la ripetizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio nonno, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Partire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionarli, farli esplodere». I ricordi dei momenti felici non cancellano però le sofferenze. «Ho vissuto con dolore la separazione dei genitori. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vedevo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande festa. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudine. E talvolta lo aiutavo nelle sculture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due figli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra famiglia era ancora tutta da immaginare». Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indirettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allude anche alla separazione dalla sua prima moglie, Olga. Lui si vede come un mostro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interessanti pure le allegorie del pittore: gli arlecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la solitudine dell’artista, la sua emarginazione. Un uomo celebrato da tutti, ma profondamente cosciente delle tristezze della vita e delle angosce che comporta qualsiasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pubblicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».
ATTRIBUTI ICONOGRAFICI DEI PRINCIPALI SANTI
ATTRIBUTI
ICONOGRAFICI DEI PRINCIPALI SANTI
Agnese: giovane con
agnello ai piedi o in braccio (per assonanza con il nome) talvolta ha
il corpo coperto da lunghe chiome poiché, durante le persecuzioni di
Diocleziano, nel 305, viene condotta nuda al patibolo, ma Dio le fece
crescere i capelli così lunghi da coprirle tutto il corpo.
Agostino: vestito
da vescovo e intento nello studio.
Andrea: con croce a
X, detta appunto croce di sant’Andrea, a volte con rete e pesci
(pescatore)
Anna: donna anziana
con manto verde, con Maria bambina.
Carlo Borromeo: in abiti da
cardinale, con naso adunco, talvolta con corda al collo, simbolo di
penitenza.
Caterina d’Alessandria: nobile,
spesso con corona, con la ruota del martirio e, a volte, la palma, la
spada con cui venne decapitata e l’anello del matrimonio mistico.
Spesso rappresentata in disputa tra i dottori.
Caterina da Siena: con abito
delle domenicane e stimmate, a volte con croce in mano, giglio e
libro.
Elena: con abiti imperiali, croce
e chiodi della croce, un modellino di chiesa in ricordo della
fondazione della chiesa della Natività a Betlemme e del Santo
Sepolcro.
Elisabetta: anziana, in genere
accompagna Giovanni Battista bambino.
Francesco d’Assisi: con saio
bruno e cingolo, con stimmate, spesso con in mano un crocifisso.
Gabriele Arcangelo: con giglio
portato alla Vergine, o lunga bacchetta, talvolta con diadema.
Gerolamo: monaco ed eremita (per
5 anni visse nel deseeto), con barba, a volte rappresentato seminudo
e con una pietra che si batte il petto davanti al crocifisso; con il
leone, il teschio, la clessidra, il libro; talvolta con abito e
cappello rosso da cardinale (segretario papale).
Giorgio: cavaliere con spada e
lancia con cui sconfigge il drago.
Giovanni Battista: eremita
vestito di pelli, con agnello (per la frase che pronunciò quando
vide Gesù, “Ecco l’agnello di Dio”) e croce, spesso con
cartiglio. Di circa sei mesi più grande di Cristo, figlio di
Elisabetta, cugina di Maria. Battezzò Cristo nel Giordano e morì
decapitato da Erode che cedette alle richieste di Salomè, figlia di
Erodiade (moglie del fratello di Erode e convivente di Erode stesso)
che chiese la testa del Battista su un piatto d’argento.
Giovanni Evangelista: giovane
imberbe con aquila e libro; a volte con calice e serpente ( costretto
a bere un veleno per non aver sacrificato agli dei, benedisse il
calice da cui uscì un serpente). Presente con Pietro e Giacomo alla
Trasfigurazione sul monte Tabor. Fu l’unico discepolo a non
abbandonare Gesù nella crocifissione rimanendo fino alla fine sotto
la croce. Scrisse uno dei Vangeli e il libro dell’Apocalisse.
Giuseppe: uomo maturo o anziano,
con bastone fiorito e strumenti del falegname.
Lorenzo: diacono con dalmatica,
libro dei salmi, con graticola e ramo di palma.
Luca Evangelista: rappresentato
mentre scrive il Vangelo o ritrae la Madonna, con libro, a volte con
un bue (il suo Vangelo inizia con sacrificio di Zaccaria). Gli viene
attribuito il ritratto dal vero della Madonna.
Lucia: con occhi in un piatto,
con palma e spada o pugnale (strumenti del martirio).
Marco Evangelista: età matura,
con tunica e pallio, spesso rappresentato mentre scrive il Vangelo;
con leone alato (il suo Vangelo inizia con il Battista nel deserto).
Maria Maddalena: elegante,
discinta o nuda coperta con lunghi capelli, a seconda se si vuole
sottolineare la sua vita dissoluta o da penitente. Con vaso
d’unguento (lavò i piedi di Cristo con le proprie lacrime e
glieli profumò con un prezioso unguento).
Matteo Evangelista: mentre scrive
il Vangelo ispirato dall'angelo; come apostolo i suoi attributi sono
il libro e l'alabarda, strumento del martirio. Ebreo che lavorava per
i Romani come esattore delle tasse, chiamato da Gesù mentre compiva
il suo lavoro.
Michele Arcangelo: alato, in
armatura con spada o lancia con cui sconfigge il demonio spesso nelle
sembianze di drago; a volte ha in mano una bilancia con cui pesa le
anime.
Paolo di Tarso: apostolo vestito
di tunica e pallio, volto nobile, con radi capelli e lunga barba
nera; suoi attributi sono un libro, in riferimento alle lettere
scritte alle prime comunità cristiane, e la spada, strumento del
martirio. Ebreo, prese parte alle persecuzioni contro i cristiani.
Viaggiando verso Damasco per condurre a Gerusalemme cristiani
imprigionati, ebbe una visione che lo accecò momentaneamente e lo
portò alla conversione.
Pietro Apostolo: vestito di
tunica e pallio, a volte in abiti papali; capelli corti e ricci,
barba corta e crespa; suoi attributi sono le chiavi, il libro e il
gallo, a volte la barca poiché era pescatore. Inizialmente si
chiamava Simone e venne chiamato Pietro da Gesù perché su di lui
avrebbe fondato la Chiesa. Morì a Roma, sotto Nerone, crocifisso a
testa in giù poiché considerava indegno morire come Gesù.
Raffaele Arcangelo: con grandi
ali, accompagna un ragazzo che a volte tiene in mano un pesce; nel
Medioevo è vestito da pellegrino. Accompagnò il giovane Tobia a
riscuotere un credito al posto del padre divenuto povero e cieco, lo
salvò da pericoli, gli fece catturare un grosso pesce; gli fece
sposare Sara insegnandogli a liberarla dal demonio che faceva morire
tutti i suoi mariti la sera delle nozze (vedova per 7 volte). Riportò
gli sposi a casa del padre e Tobia guarì il padre dalla cecità
grazie agli insegnamenti dell'arcangelo.
Sebastiano: tra VII e VIII sec.
uomo con la croce, la palma o la corona di gloria; nel Medioevo,
cavaliere con arco e frecce; dal Rinascimento si diffonde l'immagine
del giovane legato e trafitto da frecce; talvolta vestito da soldato;
suoi attributi sono arco e frecce. Martirizzato dalle frecce, non
morì e venne salvato da Irene, ma Diocleziano lo fece uccidere a
bastonate e gettò il suo corpo nella Cloaca Massima; recuperato da
un cristiano e seppellito nelle catacombe.
Teresa d'Avila: con saio monacale
delle carmelitane; suoi attributi sono la freccia che la ferisce al
cuore, il cuore con il nome di Gesù IHS (si definiva Teresa di Gesù)
e la colomba simbolo dello spirito santo. Nacque ad Avila nel 1515, a
20 anni si fece carmelitana; ebbe esperienze mistiche, con visioni
estatiche documentate. Morì nel 1582.
Tommaso Apostolo: con tunica e
pallio; ha come attributi una squadra e una lancia (dal XVII sec.
solo lancia), a volte ha in mano una cintura; è l'incredulo e il
dubbioso.
Tommaso d'Aquino: frate
domenicano piuttosto in carne (era obeso); suoi attributi sono il
sole sul petto, simbolo dell'erudizione, la penna, la colomba
dell'ispirazione, talvolta il bue per il soprannome “bue muto”.
Nacque nel 1225, formatosi a Montecassino, poi all'università di
Napoli dove divenne domenicano, poi andò a Parigi alla facoltà di
teologia e lì divenne docente di filosofia e teologia. Scrisse la
Summa Teologica: tentativo di
dare spiegazione filosofica e fondamento scientifico alla dottrina
cristiana.
Veronica: dolente
con un panno sul quale è impresso il volto di Cristo coronato di
spine; una delle donne che seguiva Gesù sul Calvario e che gli
asciugò il volto con un panno quando cadde; sul panno restò
impresso il volto del Cristo, esso è conservato a Roma in San Pietro
dall'VIII secolo (!!!)
DIZIONARIO ARTE CONTEMPORANEA
Action
Painting
Il
termine Action Painting, "pittura di azione", fu coniato
dal critico americano Harold Rosenberg nel 1952 per designare una
esperienza d’arte che emergeva nell’ambiente di New York.
Riprendeva la lezione storica dell’espressionismo astratto europeo,
ma con nuova carica surreale, importata da autori come Hans Hoffman e
Arshile Gorky. Ne è stato protagonista sin dalla fine di Quaranta
Jackson Pollock (morto tragicamente nel 1956, a 44 anni). Stendeva
per terra grandi tele e vi faceva sgocciolare sopra, con gesti rapidi
e nevrotici, seguendo ritmi impulsivi, colori di vernici industriali.
Questa procedura labirintica, detta dripping (lo "sgocciolamento"),
realizzava l’esigenza dell’artista di "sentirsi più vicino,
quasi parte integrante della pittura". Energiche stesure basate
sul nero, con spazzole e cazzuole, praticava invece Kranz Kline,
mentre tensione visionaria esprimevano i frammenti composti
drammaticamente da Willem De Kooning. Un gesto lento, largo e intenso
connota invece i campi cromatici di Mark Rothko. In Europa, tendenza
analoga è il tachisme (dal francese "tache", macchia)
espresso da artisti come Fautrier, Hartung, Mathieu. Quest’ultimo
per esempio schizzava colori contro la tela in velocità: la pittura
come gesto senza mediazioni, la vita come tiro al bersaglio.
Sul
finire della seconda guerra mondiale, in una Europa dolente di
tragedie, l’arte si volse a privilegiare le energie primarie del
gesto, la forza magmatica della materia, i liberi istinti creativi.
Fu la stagione dell’Informale, che connotò gli anni Cinquanta nel
mondo. In quel clima un artista francese, Jean Dubuffet, raccogliendo
l’eredità storica del surrealismo - espressionismo, si volge a
collezionare disegni di bambini e di malati di mente. Nel 1947 ne
organizza una mostra a Parigi, e definisce quella esperienza
spontanea e incontrollata “art brut”, ovvero “grezza”,
“bruta”. Nel contempo egli stesso dipinge quadri che parafrasano
le immagini scaturite da simili primitivi impulsi in assenza di
cultura e di regole, così come i graffiti sui muri, le scritte nei
vespasiani, i disegni delle caverne. L’Art Brut diviene così un
movimento con le sue teorizzazioni (raccolte nei “Cahiers de l’art
brut”) e i suoi seguaci. Il capofila è ovviamente Dubuffet. Ma vi
aderiscono artisti di spicco, come Appel, Jorn, Alechinsky,
Corneille, Constant, a loro volta esponenti del gruppo nord-europeo
“Cobra”, acronimo delle loro città, Copenaghen – Bruxelles -
Amsterdam. L’Art Brut ebbe vita breve. Un suo museo, che conserva
anche la collezione di Dubuffet, è sorto in Svizzera, a Losanna.
L'espressione
compare nel 1967 negli Usa, ed è usata da un gruppo di artisti
influenzati dal teorico Ad Reinharat. Tra questi artisti ricordiamo
J. Kosuth, Lewitt, Huebler, Weiner. Reinharat, particolarmente attivo
nel 1969, svolse la sua opera all'interno del gruppo inglese Art
Language. L'Arte Concettuale evidentemente si oppone all'arte
"oggettuale" ossia ai movimenti del New Dada, della Pop Art
e della Mitzmal Art (Arte Povera), rifiutando qualsiasi ricerca
estetica e formale essa si rivolge ad una investigazione delle
esperienze mentali e alla indagine sulla natura dell'arte stessa;
l'opera non è altro che un mezzo visivo per comunicare un atto
mentale.
Si è proposto di considerare l'Arte Concettuale "come una corrente squisitamente mentale, di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica più che quello di incarnarsi in un preciso embrione formale, tangibile e decisamente fruibile percettivamente".
Si è proposto di considerare l'Arte Concettuale "come una corrente squisitamente mentale, di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica più che quello di incarnarsi in un preciso embrione formale, tangibile e decisamente fruibile percettivamente".
Il
Movimento Arte Concreta (MAC) nasce a Milano nel 1948. Ne sono
promotori Gianni Monnet, Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gillo
Dorfles. Il gruppo riprende le teorie già enunciate nel 1930 da Theo
Van Doesburg in Olanda e nel 1936 dallo svizzero Max Bill. L’arte
concreta è, come l’arte astratta, non – figurativa, "aniconica".
Però, sostiene il MAC, l’arte concreta non dipende da processi di
astrazione dalla natura o da cose viste: si fonda su segni, linee,
colori, forme di piena autonomia inventiva. Il MAC conobbe grande
espansione anche per il sostegno del più autorevole storico
dell’arte del tempo, Lionello Venturi e si collegò a movimenti
analoghi europei come il gruppo francese Espace. A Milano vi
aderirono fra gli altri Fontana, Sottsass, Nigro, Reggiani, Veronesi,
Radice. A Roma Colla, Perilli, Prampolini, Dorazio. A Napoli
Barisani, De Fusco, Tatafiore. Intensa fu l’organizzazione di
mostre e la produzione di cartelle grafiche, riviste, pubblicazioni.
Naturalmente all’interno del MAC si manifestarono varie anime, da
quelle interessate a rigori geometrici a quelle che usavano forme e
colori più liberi nello spazio, o si spingevano verso il design.
Così il Movimento, stretto fra le novità dell’Informale e
l’opposizione dei Figurativi, entrò in crisi e si sciolse nel
1958.
L'arte genetica, biotech
o transgenica, è una delle forme contemporanee di arte che avvicina
la sperimentazione genetica e biologica, nel campo della vita
artificiale, alla ricerca artistica. Nasce negli anni ‘90 con
l’inizio con la ricerca scientifica in campo genetico e con la
scoperta del DNA.
L’arte biotech vuole creare la vita artificiale, in forme digitali, dove i processi biologici sono programmabili (Peter Weibel 1993).
I bioartisti utilizzano le conoscenze e gli strumenti scientifici per la creazione di opere d'arte nelle quali il medium utilizzato, la biotecnologia, sia nello stesso tempo il soggetto dell'opera.
I bioartisti hanno alle spalle una formazione scientifica e lavorano a stretto contatto con ricercatori e scienziati che danno supporto alle loro creazioni.
Eduardo Kac (http://www.ekac.org) bioartista brasiliano è il capostipite dell'arte biotech come simulazione digitale. Kac ha creato nel 2000 “Alba” una coniglietta transgenica dall'improbabile colore fluorescente. Nell'opera "The Eight Day", Eduardo Kac, ha utilizzato un gruppo di scienziati dell'Università di Phoenix in Arizona per realizzare un piccolo ecosistema popolato da un robot, da pesci, da topi e piante fluorescenti.
Lo scopo dell'opera e mettere a confronto il mito della creazione originaria con la creazione di natura biotecnologica. Nell'opera Genesis, Kac ha inserito in un batterio una sequenza biblica codificata, quindi le sequenze del dna sono state decodificate e tradotte in suoni; ma il suo interesse principale e' di seguire l'interazione del soggetto trattato con altre popolazioni di batteri. Alcuni artisti dell’arte Biotech sono:
Marion Laval-Jeantet e Benoît Mangin con l'opera "Cultures de peaux d'artistes";
George Gessert pittore americano George Gessert si dedica all'arte genetica dell'ibridazione vegetale;
Joe Davis Americano lavora al Mit di Boston, utilizza il DNA come mezzo di espressione artistica.
L’arte biotech vuole creare la vita artificiale, in forme digitali, dove i processi biologici sono programmabili (Peter Weibel 1993).
I bioartisti utilizzano le conoscenze e gli strumenti scientifici per la creazione di opere d'arte nelle quali il medium utilizzato, la biotecnologia, sia nello stesso tempo il soggetto dell'opera.
I bioartisti hanno alle spalle una formazione scientifica e lavorano a stretto contatto con ricercatori e scienziati che danno supporto alle loro creazioni.
Eduardo Kac (http://www.ekac.org) bioartista brasiliano è il capostipite dell'arte biotech come simulazione digitale. Kac ha creato nel 2000 “Alba” una coniglietta transgenica dall'improbabile colore fluorescente. Nell'opera "The Eight Day", Eduardo Kac, ha utilizzato un gruppo di scienziati dell'Università di Phoenix in Arizona per realizzare un piccolo ecosistema popolato da un robot, da pesci, da topi e piante fluorescenti.
Lo scopo dell'opera e mettere a confronto il mito della creazione originaria con la creazione di natura biotecnologica. Nell'opera Genesis, Kac ha inserito in un batterio una sequenza biblica codificata, quindi le sequenze del dna sono state decodificate e tradotte in suoni; ma il suo interesse principale e' di seguire l'interazione del soggetto trattato con altre popolazioni di batteri. Alcuni artisti dell’arte Biotech sono:
Marion Laval-Jeantet e Benoît Mangin con l'opera "Cultures de peaux d'artistes";
George Gessert pittore americano George Gessert si dedica all'arte genetica dell'ibridazione vegetale;
Joe Davis Americano lavora al Mit di Boston, utilizza il DNA come mezzo di espressione artistica.
Il
termine Performance Art, nato negli anni Settanta, designa una serie
di espressioni artistiche prodotte attraverso la danza, la musica, il
cinema, il teatro, il video e la poesia.
Quando il performer proviene dal mondo del teatro risultano prevalenti immagine e movimento, quando invece proviene dal mondo della danza prevalgono la parola e la teatralità. Se proviene dal mondo musicale il fattore squisitamente acustico è di gran lunga in secondo piano, o del tutto assente, a vantaggio delle sollecitazioni teatrali, gestuali e visive.
La diffusione del termine "performance" si deve al musicista John Cage nel secondo dopoguerra.
Il termine può essere applicato anche ad eventi e operazioni di fine anni Sessanta, come quelle che fanno capo al gruppo Fluxus e agli happening di Allan Kaprow.
Elementi fondamentali della Performance Art sono il corpo e il comportamento (Body Art), i suoni, l'olfatto e le parole. Con l'uso del corpo come medium artistico la Performance Art si avvicina alla Body Art (Gina Pane, Chrtis Burden, Vito Acconci).
Esponenti delle Performance Art, dagli anni '60 e '70, sono: Robert Fillou, Dick Higgins e Jackson McLow con le performance verbali; Merce Cunningham, Trisha Brown e Lucinda Childs con le performance sinestetiche; John Cage, Terry Riley, La Monte Young e Giuseppe Chiari con le performance acustiche.
Quando il performer proviene dal mondo del teatro risultano prevalenti immagine e movimento, quando invece proviene dal mondo della danza prevalgono la parola e la teatralità. Se proviene dal mondo musicale il fattore squisitamente acustico è di gran lunga in secondo piano, o del tutto assente, a vantaggio delle sollecitazioni teatrali, gestuali e visive.
La diffusione del termine "performance" si deve al musicista John Cage nel secondo dopoguerra.
Il termine può essere applicato anche ad eventi e operazioni di fine anni Sessanta, come quelle che fanno capo al gruppo Fluxus e agli happening di Allan Kaprow.
Elementi fondamentali della Performance Art sono il corpo e il comportamento (Body Art), i suoni, l'olfatto e le parole. Con l'uso del corpo come medium artistico la Performance Art si avvicina alla Body Art (Gina Pane, Chrtis Burden, Vito Acconci).
Esponenti delle Performance Art, dagli anni '60 e '70, sono: Robert Fillou, Dick Higgins e Jackson McLow con le performance verbali; Merce Cunningham, Trisha Brown e Lucinda Childs con le performance sinestetiche; John Cage, Terry Riley, La Monte Young e Giuseppe Chiari con le performance acustiche.
E’
nel 1976 che il critico Germano Celant forgia il termine "Arte
Povera". Con questa accezione lo studioso identifica quegli
artisti che lavorano materiali di scarto: carta, stracci, ferro,
zinco, pietra; inusuali per le composizioni artistiche, salvo che per
alcuni scultori. Ma la portata innovativa dell’Arte Povera risiede
nella forma in cui tali materiali sono plasmati. Non si crea con una
struttura mimetica, né astratta: l’Arte Povera realizza una
fusione tra causalità (o fatalità) della Natura e arbitrio umano.
In
altri termini, quando si piegano allo spirito creativo materiali
apparentemente inutilizzabili, e quando questi vengono plasmati
dall’usura del Tempo e manipolati da una logica umana concreta si
parla allora di Arte Povera. Ecco allora che "i poveristi"
si appropriano di carta, stracci, materiali lasciati all’incuria,
ma soprattutto permettono che nelle loro opere riecheggino altre
discipline scientifiche: l’antropologia, l’alchimia, la
psicanalisi, la biologia, tutte categorie della conoscenza che
affiancano la Storia dell’Arte. Insieme a queste prerogative l’Arte
Povera assume in sé anche gli stilemi intellettuali dell’Arte
Concettuale, così da integrare alle forme, spesso complesse da
decodificare, un significato nascosto e comunque leggibile con i
giusti mezzi. Un esempio paradigmatico di Arte Povera sono gli
specchi di Michelangelo Pistoletto, dove lo spettatore si riconosce
nel quadro-immagine-specchio con una funzione dell’opera verso lo
spettatore (e viceversa) di "do ut des". Artisti
italiani che comunicano con l’Arte Povera sono: Gilberto Zorio,
Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Pietro Gilardi, Alighiero
Boetti, Emilio Prini, Gianni Piacentino, Paolo Calzolai, Giovanni
Anselmo, Mario Ceroli, Jannis Kounnelis, Pino Pascali.
Ai
primi anni sessanta esplode la cosiddetta arte cinetica e
programmata. Gli antecedenti sono lontani, oltre che le sculture in
movimento di Calder, va ricordata l'opera di Max Bill, Naum Gabo e
Moholy Nagy. Ma è nel "manifesto giallo" del 1955,
pubblicato dalla Galleria Denise Renè di Parigi, che il termine di
cinetico e cinematico inizia ad essere usato per indicare le
specifiche ricerche sulla percezione visiva.
L'arte programmata o cinetica ha rappresentato un sostanziale rinnovamento del fare e dell'intendere estetico contemporaneo, inaugurando una nuova fase del divenire della visualizzazione e ampliando quella sfera della percettività ritenuta prima esclusivo dominio delle discipline scientifiche. Non si muove più da valori dati, ma si tende alla individuazione di valori nuovi. L'arte programmata punta sui processi fenomenici che scaturiscono dalla natura stessa delle cose; del loro intrinseco dinamismo, propone, attraverso realizzazioni ricche di indicazioni prospettiche multiple, una analogia plastica.
L'arte programmata o cinetica ha rappresentato un sostanziale rinnovamento del fare e dell'intendere estetico contemporaneo, inaugurando una nuova fase del divenire della visualizzazione e ampliando quella sfera della percettività ritenuta prima esclusivo dominio delle discipline scientifiche. Non si muove più da valori dati, ma si tende alla individuazione di valori nuovi. L'arte programmata punta sui processi fenomenici che scaturiscono dalla natura stessa delle cose; del loro intrinseco dinamismo, propone, attraverso realizzazioni ricche di indicazioni prospettiche multiple, una analogia plastica.
Sul
finire degli anni cinquanta il mondo dell'arte è diviso ancora tra
realismo e astrattismo. Il realismo si pone come mimetico della
realtà: esso riproduce la figura umana nel rapporto con le cose del
mondo naturale. L'astrattismo, matrice di varie correnti, non si
riferisce ad un concetto rappresentativo. Il che non significa che
esso prescinde o falsifica la realtà che lo circonda, ma solo che
rende possibile la considerazione separata delle forme e delle sue
componenti, e con questo l'atto della conoscenza. Si tratta di
un'operazione grazie alla quale un segno, una figura geometrica, un
colore sono scelti e isolati come oggetti di percezione, attenzione,
indagine.
Le fasi dell'astrattismo sono l'astrazione lirica, l'astrazione geometrica e infine l'informale. Quest'ultima nasce come reazione alla pittura geometrica e a quella realistica, con finalità di propaganda politica.
Le fasi dell'astrattismo sono l'astrazione lirica, l'astrazione geometrica e infine l'informale. Quest'ultima nasce come reazione alla pittura geometrica e a quella realistica, con finalità di propaganda politica.
Tra
il 1973 e il 1974, dall'area inglese, entra nell'uso del linguaggio
critico internazionale, l'espressione body art per indicare tutto
quel complesso di esperienze, ricerche, proposte, che hanno come
elemento costante il riferimento al corpo dell'uomo, visto
alternativamente come oggetto su cui compiere azioni o come soggetto
che si muove nello spazio e circoscrive eventi.
Un numero sempre maggiore di pittori e scultori contemporanei ricorre all'uso del corpo come linguaggio.
Come Antonin Artaud in campo teatrale, questi artisti si impegnano nella ricerca e nella perlustrazione delle infinite possibilità di conoscenza del corpo ed entrano nella messa in scena artistica senza utilizzare un personaggio ma essendo loro stessi il personaggio e subendo su di sé le proprie elaborazioni artistiche. Ogni cosa diviene una possibilità di esperire, una foto, una radiografia del proprio cranio, la propria voce, sono tutti elementi da rielaborare ed esaminare.
Alcuni artisti praticano un camuffamento, uno spostamento del materiale personale, altri invece ne fanno esplicito riferimento. Un elemento caratteristico delle opere d'arte legate a questo movimento è l'ansia. Il sentimento ansioso sottende tutte le elaborazioni artistiche come una sorta di leit motiv, un assillo attraverso il quale si estrapolano i sentimenti di angoscia dell'essere al mondo, e d'impossibilità di porsi in reale rapporto dialettico con se stessi.
Un numero sempre maggiore di pittori e scultori contemporanei ricorre all'uso del corpo come linguaggio.
Come Antonin Artaud in campo teatrale, questi artisti si impegnano nella ricerca e nella perlustrazione delle infinite possibilità di conoscenza del corpo ed entrano nella messa in scena artistica senza utilizzare un personaggio ma essendo loro stessi il personaggio e subendo su di sé le proprie elaborazioni artistiche. Ogni cosa diviene una possibilità di esperire, una foto, una radiografia del proprio cranio, la propria voce, sono tutti elementi da rielaborare ed esaminare.
Alcuni artisti praticano un camuffamento, uno spostamento del materiale personale, altri invece ne fanno esplicito riferimento. Un elemento caratteristico delle opere d'arte legate a questo movimento è l'ansia. Il sentimento ansioso sottende tutte le elaborazioni artistiche come una sorta di leit motiv, un assillo attraverso il quale si estrapolano i sentimenti di angoscia dell'essere al mondo, e d'impossibilità di porsi in reale rapporto dialettico con se stessi.
"Fluxus
esisteva prima di avere il suo nome e continua a esistere oggi come
forma, principio e modo di lavorare", così dichiara Dick
Higgins, uno dei protagonisti di Fluxus, chiamato a raccontare la sua
esperienza. Nel settembre 1962 George Maciunas organizza il primo
“Fluxus”. A lui si deve la scelta del termine derivante dal
latino che significa diverse cose tra cui scorrere, ondeggiare in
libertà, infiltrazione, fugace. Fu questo architetto ad ideare la
manifestazione nella quale artisti americani ed europei, che
lavoravano in modo simile, potessero presentare una diversa modalità
di fare arte, usando nuove connessioni tra musica, poesia, arti
visuali, danza, teatro, aprendosi a una multiformità di generi.
Fluxus fu costituito da persone di diversa nazionalità, provenienza
culturale ed esperienze artistiche diverse; i suoi componenti vi
entravano e uscivano fluidamente e fluidamente si spostavano
dall'Europa agli Stati Uniti. Nel 1963 Maciunas assegnò a ogni
Fluxus-artista un codice in lettere e iniziò a raccogliere nuovi
materiali per pubblicare la rivista "Fluxus". Maciunas
tracciò diagrammi (1966) per definire l'albero genealogico di
Fluxus, le sue diramazioni e connessioni con altre discipline e le
sue origini storiche che venivano individuate in Marcel Duchamp e
Dada, nel teatro futurista e in quello che viene definito Bruitismo,
e poi John Cage, lo stile HaiLu, la Non-Arte e la Borderline art, il
Vaudeville e Charlie Chaplin. Nel suo scorrere leggero e fugace
Fluxus intendeva instaurare tra arte e vita una forte relazione.
Le cose quotidiane, i gesti, le azioni più semplici come respirare,
fumare o sedersi su una sedia (Brecht) diventano opere fluxus e come
in un ready-made vengono estratte dalla realtà del quotidiano per
entrare nell'evento fluxus.
I
graffiti di cui si parla sono grafismi, grafemi, graffi, urticazioni,
scalfittura, arroncigliature, lacerazioni del mondo o della
superficie su cui si interviene: sono grafospasmi d'amore.
A New York, nel '72, varie bande di giovanissimi cubani, greci, neri, portoricani tracciarono lettere e incisero scritte, con i colori delle bombolette spray, sulle fiancate dei vagoni della metropolitana, sugli autobus, sui muri delle banche, delle scuole, dei fabbricati. Si trattò di un'invasione rapidissima e massiccia, con modi grafici che sapevano di fumetti e pubblicità ma soprattutto di messaggi cifrati.
Alla fine dello stesso anno, Hugo Martínez, studente di sociologia portoricano chiede all'U.G.A. di disegnare la scenografia di un suo balletto. Da questo momento il fenomeno dei graffiti passa dalle strade al sofisticato giro delle gallerie di Soho.Nel 1982 vengono identificati in Europa i tre più acclamati esponenti Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e George Lee Quinones. È l'ingresso ufficiale del Graffitismo sulla scena dei movimenti di punta. La motivazione di questo movimento sta nel portare una comunicazione selvaggia e spontanea dal segno volatile e secco o duro e rabbioso, irruento e vitalistico.
A New York, nel '72, varie bande di giovanissimi cubani, greci, neri, portoricani tracciarono lettere e incisero scritte, con i colori delle bombolette spray, sulle fiancate dei vagoni della metropolitana, sugli autobus, sui muri delle banche, delle scuole, dei fabbricati. Si trattò di un'invasione rapidissima e massiccia, con modi grafici che sapevano di fumetti e pubblicità ma soprattutto di messaggi cifrati.
Alla fine dello stesso anno, Hugo Martínez, studente di sociologia portoricano chiede all'U.G.A. di disegnare la scenografia di un suo balletto. Da questo momento il fenomeno dei graffiti passa dalle strade al sofisticato giro delle gallerie di Soho.Nel 1982 vengono identificati in Europa i tre più acclamati esponenti Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e George Lee Quinones. È l'ingresso ufficiale del Graffitismo sulla scena dei movimenti di punta. La motivazione di questo movimento sta nel portare una comunicazione selvaggia e spontanea dal segno volatile e secco o duro e rabbioso, irruento e vitalistico.
Una
singolare operazione di impasto fra visionarietà surrealista e
tensione espressionista del gesto e del colore caratterizza
l’esperienzadi un gruppo di artisti che si costituì a Parigi nel
1948, sotto la suggestiva sigla COBRA. Risultava dalle prime lettere
di Copenaghen - Bruxelles - Amsterdam , le città di origine dei
fondatori delmovimento: il danese Asger Jorn, i belgi Christian
Dotremont (era un poeta, inventò lui l’acronimo) e Noiret, gli
olandesi Karel Appel, Constant, Corneille. Fra gli altri artisti che
aderirono, spicca il nome del più giovane Pierre Alechinsky, belga
con padre russo. Il gruppo nordico si distaccò dal surrealismo
francese guidato da André Breton: il disaccordo verteva sulla
politicizzazione imposta dal poeta e teorico del movimento
(l’equazione fra rivoluzione linguistica e rivoluzione politica) e
sulla concezione del surrealismo come “puro automatismo psichico”.
Nel contempo, essi intendevano opporsi alla rigidità
dell’astrattismo geometrico diffuso nella scia autorevole
dell’olandese Mondrian, come al realismo risorgente dopo la seconda
guerra mondiale. Valeva semmai la lezione del grande belga Ensor .
Comunque premeva l’esigenza di una pittura liberata da schemi e
gabbie teoriche, affidata alla immediatezza fantastica, capace di
attingere all’immaginario popolare per far fluire dal vitalismo del
mondo animale un fiotto di visioni grottesche, dai colori
festosamente stridenti, in composizioni di orchestrato dinamismo. Il
collettivo COBRA si avviò con frenetico attivismo, giungendo ad
avere una cinquantina di aderenti. Ma ebbe vita breve: già nel 1951
si sciolse. Ogni artista prese la sua strada, guardando anche alla
cultura dell’informale che avanzava (Alechinskysi accostò a
Pollock, Jorn e Constant confluirono nel Situazionismo).
La
prima apparizione del termine "Happening" risale al 1959,
in un'opera presentata alla Reuben Gallery di New York, "18
Happenings in 6 Parts", dell’americano di origine russa Allan
Kaprow, che ne è anche il coniatore. Si indica da allora, con
Happening, qualcosa che accade, che si determina attraverso una
struttura a compartimenti. In ciascuno di questi avviene
qualcosa: ogni spazio rappresentato o suggerito nelle opere, è
conservato da una isolata condizione autonoma dove ogni evento, ogni
azione elementare, può essere legata all’altra in una sequenza o
svolgersi nel medesimo istante senza necessariamente dover rispondere
ad un rapporto di causa ed effetto.
Si possono, in alcuni casi, verificare circostanze imprevedibili in grado di modificare i risultati dell’azione, nonostante, soprattutto nei primi Happening, gli autori non concedano spazi all’improvvisazione, ritenuta fuorviante. Ogni elemento della scena, attore compreso, si fa oggetto. Anche il linguaggio verbale viene trascurato, prediligendo l’uso di rumori e suoni.
Oltre a Kaprow, altri autorevoli artisti che hanno lavorato con l’Happening sono Claes Oldenburg, Red Grooms, Jim Dine e Robert Whitman.
Si possono, in alcuni casi, verificare circostanze imprevedibili in grado di modificare i risultati dell’azione, nonostante, soprattutto nei primi Happening, gli autori non concedano spazi all’improvvisazione, ritenuta fuorviante. Ogni elemento della scena, attore compreso, si fa oggetto. Anche il linguaggio verbale viene trascurato, prediligendo l’uso di rumori e suoni.
Oltre a Kaprow, altri autorevoli artisti che hanno lavorato con l’Happening sono Claes Oldenburg, Red Grooms, Jim Dine e Robert Whitman.
L’hacker
è, notoriamente, il “pirata” che s’introduce nella rete, a
scopi di eversione del sistema informatico. A quella esperienza
ribellistica, mausata con valenza positiva, si rifà il termine
“Hacker Art” coniato nel 1989 da Tommaso Tozzi, studioso italiano
di nuove culture e tendenze estetiche, che è stato fra i pionieri
della Net Art, ovvero la sperimentazione di nuove modalità di
comunicazione creativa mediante Internet. Tozzi che insegna
all’Accademia di Carrara e all’università di Firenze, ha
elaborato una idea di arte come “forma propositiva e non
distruttiva di democrazia dell’informazione e della comunicazione”.
Lo sudioso sostiene l'idea di un'arte interattiva, senza copyright,
no-profit, intesa a creare e far circolare in rete liberamente
informazioni (anzi: “controinformazioni”) dati, testi, immagini,
“creazioni individuali e collettive”. Un “sistema aperto” e
in progress che produce non una offerta di “prodotto” finito ma
l'attivazione di processi autogestiti. Evidenti le radici “politiche”
della proposta (la cultura anarchica-libertaria e dei Centri Sociali)
ed estetiche (il Dada storico, Fluxus, Happening). Fra le iniziative
attivate, la BBS Hacker Art - una sorta di banca dati (1990), Strano
Nettwork (1994), gli Hackmeeting (dal 1998) con proprio sito, la
mostra AHA (Activism – Hacking – Artivism) alla Sapienza di Roma,
nel 2002.
Sembra
rifarsi alla tradizione della pittura cosiddetta “à trompe
l’oeil”, la pittura che “inganna l’occhio” col suo estremo
mimetismo, la tendenza che apparve in America negli anni Settanta
sotto la dizione di “iperrealismo”. In realtà si tratta di
un’arte che nasce dalla cultura pop, cioè dalla sensibilità
diffusa per un immaginario alimentato dalla comunicazione da “grandi
magazzini” e dalla denuncia di disadorna quotidianità. Così si
afferma una pittura che simula con la sua manualità l’esattezza
tecnologica della fotografia, per cui si parla anche di
“fotorealismo” (oggi praticato spesso nella pittura su basi
digitali). Primo campione è stato Chuck Close, autore di ritratti e
di autoritratti anche in formato gigante. Altri esponenti del
movimento: Richard Estes, Ralph Goings, Malcolm Morley, e in Europa
il tedesco Gert Richter. Nel contempo si sono moltiplicate le prove
di una “scultura” che, utilizzando nuovi materiali plastici e
resine, realizza manichini – nudi, di solito - di esasperata
resa illusionista: così virtuosa da trasmettere sensi di gelo,
inquietudine, allucinazione. E dunque, appunto, realismo che viene
travalicato e spiazzato. Maggiori esponenti della scultura
iperrealista sono Duane Hanson e John De Andrea, anche loro
statunitensi, e l’inglese Ron Mueck.
L'espressione,
così come i sinonimi Earth Art o Earth Work, si afferma negli Usa
verso la fine del decennio 1960-1970 per designare le ricerche
"operative" impegnate in diretti interventi sul paesaggio e
sulla natura. La Land Art, "come l'arte dei giardini in altri
tempi, interviene nel paesaggio con intenzioni estetiche, proprio per
produrre un mutamento nella struttura di esso e per osservarne
sperimentalmente i risultati". Spesso gli interventi sono
registrati tramite filmati, videotape e fotografie. Al fondo delle
motivazioni della Land Art si trovano preoccupazioni ecologiche. Non
è un caso che in italiano la Land Art sia stata definita Arte
ecologica. Le preoccupazioni ecologiche sono dirette ad una
salvaguardia della natura, che si attua con un ritorno ad una cultura
primigenia, contrapposta alla pseudo cultura contemporanea.
Secondo Dorfles la Land Art interviene sulla natura "non in modo
edonistico e ornamentale ma per quello che potremmo definire una
presa di coscienza dell'intervento dell'uomo su elementi che
presentano un ordine naturale e che, da tale intervento, sono
sconvolti ed incrinati".
La
mail-art, o "arte postale" è, più che una tendenza
artistica, una esperienza nata dalla costola dell’arte di
comportamento e concettuale degli anni Sessanta: in particolare dallo
spirito del gruppo Fluxus, il vivace movimento internazionale che si
distinse per una serie di azioni, interventi, creazioni di spirito
neodadaista. Da Fluxus viene l’americano Ray Johnson, che nel 1962
mandò per posta i suoi lavori nel mondo ("Add to and return
to") e fondò la New York Corrispondance School of Art. scuola
d’arte "per corrispondenza" nella quale non solo gli
elaborati spediti per posta, ma le buste, i francobolli, i timbri
finirono per confluire nell’operazione artistica. Ma è stato uno
dei massimi esponenti dell’arte concettuale americana, On Kawara, a
conferire aura di progettualità ad una intuizione nata come gioco
eversivo ai margini del sistema: con le operazioni "I got up"
del 1969 (cartoline postali inviate tutti i giorni per 4 mesi ad
artisti, critici, amici, con l’indicazione dell’ora in cui si era
alzato da letto) e "I am still alive" del 1970 (telegramma
inviato a Sol Lewitt, che ne trasse 74 variazioni). In questo modo la
mail art si precisava come l’ala più mobile e più "democratica",
per così dire, di un’arte che rifiutava gli oggetti per affidarsi
a messaggi immateriali, ad operazioni sul linguaggio della
comunicazione. Di qui una vasta diffusione della mail art, con la
nascita di gruppi in relazione, la costituzione di archivi. Una
crescita che ha resistito alla crisi della cultura concettuale negli
anni Ottanta: sia per incroci con altre esperienze come la poesia
visiva, sia avvalendosi di nuove tecnologie della comunicazione, come
la fotocopiatrice. Ma soprattutto il fax (tanto che è nata una
sottospecie della mail art, la fax art con i suoi operatori e le sue
manifestazioni). Nuovo impulso peraltro ha ricevuto la mail art da
Internet. Infatti la posta elettronica, abolendo distanze spaziali e
temporali, arricchendo i messaggi con gli ipertesti, ha consentito
alla mail art un salto di qualità anche concettuale. In sostanza
essa è oggi più che una variante forte della net art, ne
costituisce un pilastro. Lo dimostrano le operazioni di mail art
proposte in grandi mostre internazionali come Documenta a Kassel e
Manifesta a Francoforte, con banchi telematici a disposizione anche
del pubblico o allestimento di chioschi per la ricezione-diffusione
dei messaggi. Ne esce rafforzata la motivazione originaria di questa
esperienza: quella di proporre un’arte diffusa fuori dagli schemi
del sistema, accessibile a tutti, che offre più che opere e
prodotti, processi mentali, stimoli creativi, scambi di idee. Un’idea
forse effimera dell’arte, ma ben a passo coi tempi. E col suo
pedigree storico: le radici della mail art sono infatti anch’esse
da ricercare nelle avanguardie dadaiste e futuriste del primo
Novecento.
Data
ufficiale di nascita della pittura metafisica – uno degli eventi
più significativi nell’arte e nella cultura del Novecento europeo
- è il 1917: il primo conflitto mondiale era ancora in corso quando
Giorgio De Chirico e Carlo Carrà si incontrarono nell’ospedale
militare di Ferrara. Già da diversi anni De Chirico - tornato in
Italia dopo gli studi a Monaco di Baviera, dove aveva subito
l'influenza del simbolismo tedesco di Bocklin e Klingere e delle
letture di Nietzsche - aveva dato avvio a una pittura visionaria che
anticipava il surrealismo e rompendo l’ordine logico di rapporti
fra le immagini, esplorava il mistero e la malinconia di spazi urbani
solitari o abitati da statue viventi e da manichini senza volto. E'
questa la sostanza di una pittura che intendeva andare “al di là
delle cose fisiche”, per evocare enigmi e smarrimenti della vita,
sensi riposti, nostalgie e alienazioni. Un'arte che divenne movimento
dopo il 1918, quando iniziarono a confluire attorno al suo grande
protagonista e (per breve tempo) al comprimario Carrà, gli apporti
personali di altri autori. Molto importante anche sul piano teorico e
letterario è stato il contributo di Alberto Savinio, fratello di De
Chirico. Al movimento aderirono in varia misura Giorgio Morandi,
Mario Sironi, Massimo Campigli, Felice Casorati.Minimalismo
Movimento
conosciuto anche attraverso l'accezione di "Strutture Primarie",
nasce in America nella seconda metà degli anni '60 integrando, in un
percorso nato dalla negazione, le simbologie lessicali della Pop Art
e della Op Art. Della Pop conserva ed esaspera le sproporzioni della
superficie, mentre della Op recupera l'analisi geometrica, pur
dedicando maggiore attenzione al risultato formale. Quasi sempre sono
sculture essenziali nelle sagome e nei colori, più determinate al
turbamento sensibile dello spazio circostante che ad isolarsi nella
propria identità, circoscrivendo lo spazio tematico ad una sintesi
svolta tra architettura, pittura ed ambienti, coinvolgendo
l'osservatore nell'opera stessa. Spazio, allora, come ubicazione di
un elemento tra gli altri; geometria come rapporto tra gli insiemi;
ordine come rapporto di regole in spiegazione ai parametri di
equilibrio, simmetria e proporzione stabiliti intorno agli oggetti.
Tra i pionieri del Minimalismo, troviamo gli americani Tony Smith,
Bob Morris, Dan Flavin. Gli inglesi Anthony Caro, William Tucker,
Philip King, Richard Smith, invece, sono i rappresentanti del nuovo
impulso creativo. Anche in Italia questa cornice espressiva trova tra
i suoi esponenti con Rodolfo Aricò, Maurizio Mochetti, Gianfranco
Pardi, Renato Barisani e Nicola Carrino.
Nel
1948 un gruppo di intellettuali ed artisti fondò a Milano il
Movimento Arte Concreta. Teorico del movimento, Gillo Dorfles, noto
critico e studioso, allora anche pittore. Tra i fondatori anche
artisti come Bruno Munari - uno dei padri del nuovo design italiano,
Nigro, Veronesi, Soldati, Monnet e, per breve tempo Lucio Fontana.
Aprendosi alle correnti europee più avanzate di arte contemporanea,
gli artisti del MAC si schieravano con i sostenitori di un’arte
aniconica, cioè "non- figurativa", prendendo tuttavia le
distanze anche dall’ala storica dell’astrattismo. La differenza
era concettualmente sottile. L’astrattismo storico del primo
Novecento (rappresentato da artisti di diversa ispirazione come
Kandinsky e Mondrian) muoveva dal rapporto con la realtà esterna, la
natura, il paesaggio, gli oggetti, per un processo di analisi e di
riduzione alla loro essenza di forme, colori, materie, ritmi,
rapporti. Al contrario dell’arte astratta, l’arte concreta
proponeva immagini di forma-colore di pura invenzione ed elaborazione
dell’artista, indipendenti da suggestioni della realtà o da
significati simbolici. Arte "concreta" significa arte
autosufficiente, non dipendente da fonti ad essa esterne. In questo
senso era stata già teorizzata nel 1930 dall’olandese Theo Van
Doesburg, già esponente di De Stjil ("Manifesto dell’Arte
Concreta") e nel 1936 dall’artista svizzero Max Bill, dando
luogo alla produzione di quadri di grande purismo formale, con ritmi
di partitura geometrica. In Italia, il primo a rilevare la differenza
e a farsene promotore fu lo storico dell’arte Lionello Venturi,
ispiratore di "Forma 1", un gruppo romano
contemporaneo al MAC milanese, a cui aderirono artisti come Dorazio e
Perilli. A Firenze intanto veniva redatto il Manifesto
dell’Astrattismo classico che esprimeva posizioni analoghe anche se
con definizioni ambigue.
Al di là delle sofisticazioni teoriche, quel che accomunava i diversi fermenti era una concezione antinaturalista e antisurrealista dell’arte, intesa come modello progettuale in grado di "mettere ordine" idealmente in una società che si preparava a vivere il boom socio-economico degli anni Cinquanta- Sessanta. Modelli storici di riferimento erano il costruttivismo russo dopo la Rivoluzione di Ottobre, il Bauhaus tedesco con la sua utopia riformistica, e lo stesso Mondrian maturo, il profeta dell’arte come "armonia realizzata". Infatti il MAC affermava anche la "sintesi delle arti" fra arte, architettura, design: Mario Ballocco, uno dei componenti del gruppo, avrebbe condotto una indagine sistematica e scientifica del colore (cromatologia). Una nuova manifestazione di vitalità dell’arte concreta si ebbe dopo gli anni Cinquanta dominati dall’espressionismo astratto, dall’action painting, dall’informale, dall’art brut, manifestazioni di arte non figurativa, ma all’insegna di un individualismo esasperato, irrazionale, gestuale. Gli studi tedeschi di Rudolf Arnheim sulla teoria della forma (Gestalt) e l’avanzante società tecnologica determinarono una ripresa di formalismo geometrico e razionalizzante, che si diramò in numerose correnti: pittura monocroma (specie in Usa), optical art, neocostruttivismo, arte cinetica, arte ghestaltica (in Italia sostenuta dall’autorità di un altro grande studioso, Giulio Carolo Argan). Fermenti che proseguirono sotto traccia e sotto altre spoglie, dopo la grande ripresa dell’iconismo e della narrazione massmediale con la Pop Art negli anni Sessanta e quel che ne seguì sino ai giorni nostri. Per essi può restare valida nelle sue motivazioni di fondo, la definizione che dell’arte concreta dette Gillo Dorfles: una forma d’arte "basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori".
Al di là delle sofisticazioni teoriche, quel che accomunava i diversi fermenti era una concezione antinaturalista e antisurrealista dell’arte, intesa come modello progettuale in grado di "mettere ordine" idealmente in una società che si preparava a vivere il boom socio-economico degli anni Cinquanta- Sessanta. Modelli storici di riferimento erano il costruttivismo russo dopo la Rivoluzione di Ottobre, il Bauhaus tedesco con la sua utopia riformistica, e lo stesso Mondrian maturo, il profeta dell’arte come "armonia realizzata". Infatti il MAC affermava anche la "sintesi delle arti" fra arte, architettura, design: Mario Ballocco, uno dei componenti del gruppo, avrebbe condotto una indagine sistematica e scientifica del colore (cromatologia). Una nuova manifestazione di vitalità dell’arte concreta si ebbe dopo gli anni Cinquanta dominati dall’espressionismo astratto, dall’action painting, dall’informale, dall’art brut, manifestazioni di arte non figurativa, ma all’insegna di un individualismo esasperato, irrazionale, gestuale. Gli studi tedeschi di Rudolf Arnheim sulla teoria della forma (Gestalt) e l’avanzante società tecnologica determinarono una ripresa di formalismo geometrico e razionalizzante, che si diramò in numerose correnti: pittura monocroma (specie in Usa), optical art, neocostruttivismo, arte cinetica, arte ghestaltica (in Italia sostenuta dall’autorità di un altro grande studioso, Giulio Carolo Argan). Fermenti che proseguirono sotto traccia e sotto altre spoglie, dopo la grande ripresa dell’iconismo e della narrazione massmediale con la Pop Art negli anni Sessanta e quel che ne seguì sino ai giorni nostri. Per essi può restare valida nelle sue motivazioni di fondo, la definizione che dell’arte concreta dette Gillo Dorfles: una forma d’arte "basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori".
Il
Movimento Nucleare nasce a Milano nel 1951 ed è fondato da Enrico
Baj, Sergio Dangelo, Joe C. Colombo. Il Movimento ha come principale
intenzione quella di studiare ed analizzare i rapporti tra scienza,
arte e tecnologia. Il "Manifesto Bum" del 1952, polemico e
provocatorio, raffigura l'immagine di un fungo atomico, il potere
distruttivo dell'energia atomica, e quella di un feto allo stato
embrionale, la capacità di rinascita della scienza. Per Baj, Dangelo
e Colombo essere "nucleari" significava essere artisti e
uomini contemporanei, affermando la loro attualità ed il bisogno di
prendere coscienza di un mondo in rapida ed inarrestabile
trasformazione. Diversa è invece l'accezione del termine "nucleare",
indicato dal futurista Fortunato Depero nel suo "Manifesto della
pittura e plastica nucleare" del 1950, o nel caso della "Madonna
Nucleare" di Dalì del 1953.
La
diffusione planetaria della comunicazione tramite Internet sta
facendo emergere (come sempre avviene nella storia quando si
affacciano innovazioni o rivoluzioni tecnologiche) forme di
linguaggio alternative rispetto alle comuni relazioni "funzionali"
messe in pratica grazie al computer. Si va definendo così, da alcuni
anni parte a questa parte, la nozione di "net.art". Con
questo termine si indicano una serie di esperienze e di operazioni
che sfruttano le caratteristiche proprie della comunicazione "in
rete". L’interattività, dunque la produzione di messaggi che
possono essere continuamente modificati da interventi in tempo reale.
L’ipertestualità, cioè la possibilità di combinare e comporre
varie forme di scrittura ed immagini, di richiamare testi in
interfaccia e di creare "link", collegamenti aperti. Ne
consegue che la net.art non produce "opere" ma "sistemi"
comunicativi; non ha "autori" in senso tradizionale ma
promotori di messaggi che di solito agiscono in gruppo, spesso sotto
sigle anonime: non ha luoghi fissi di esposizione o musei nemmeno
virtuali, perché appare nomade sugli schermi dei computer in ogni
parte del mondo ed in ogni momento. Il "luogo" della
net.art potrebbe essere in verità il web, il sito elettronico al cui
interno le proposte si condensano e si fissano visivamente. Ma
proprio per questo la critica radicale tende a distinguere la net.art
dalla web.art, più "statica" e più legata al concetto di
"autore".
Distinzioni sottili che tendono comunque ad escludere tutta un’altra serie di esperienze di "arte in rete". A cominciare dalla più "antica", che ha già quasi vent’anni di storia alle spalle: la computer art o arte digitale. Si trattava e si tratta in questo caso di sfruttare le potenzialità "matematiche" dei software per creare immagini virtuali, intervenire su immagini già date e manipolarle, dar vita insomma a tutto il sistema di immaginario degli "effetti speciali" largamente sfruttato anche e soprattutto dal cinema. In questo caso si tratta di "fare arte" secondo logiche formali tradizionali, seppure aggiornate e scaltrite tecnologicamente. Ancor più netta, ed ovvia, è la distinzione con l’uso della rete per scandire, archiviare e diffondere immagini d’arte prodotta "altrove", antica o contemporanea che sia, ivi comprese le ricostruzioni virtuali di musei o luoghi d’arte .
Per tornare alla net.art, occorre sottolineare che i sistemi di comunicazione prodotti non hanno alcuna intenzione "artistica" in senso classico, né connotazione estetica. E’ un’arte "che prescinde dall’arte", nel solco peraltro della lunga storia delle avanguardie moderne che va da Duchamp all’arte concettuale. Quelli che vengono messi in rete sono concetti strutturali che investono di solito, criticamente, la vita sociale, politica, economica oppure mettono in discussione od esplorano le modalità infinite del "mettersi in relazione": Si tende a definire così una "cultura della rete" alternativa ai sistemi dominanti, sia sul piano politico che sul piano del controllo della comunicazione. Non a caso, all’origine della net.art ci sono anche le prove degli hackers, dei pirati informatici che s’inseriscono nelle "stanze di comando" della comunicazione elettronica.
La Net Art ha comunque già non solo una serie di "operatori" nel mondo (soprattutto in Europa e Stati Uniti) ma anche luoghi d’incontro e di "esposizione". Il punto di riferimento internazionale più noto è l’Ars Electronica Center di Linz in Austria, sorto vent’anni fa, che organizza un premio annuale, il Prix Ars Electronica con diverse categorie di segnalazione delle varie forme di creatività "hitech". Ma la Net.Art ha fatto il suo ingresso anche in molte rassegne d’arte contemporanea, come Documenta a Kassel in Germania dal 1997 e la Biennale d’arte americana del Whitney Museum a New York dal 1999. Altra manifestazione specifica è il festival Transmediale.01 di Berlino, che attribuisce premi per "software art".
Distinzioni sottili che tendono comunque ad escludere tutta un’altra serie di esperienze di "arte in rete". A cominciare dalla più "antica", che ha già quasi vent’anni di storia alle spalle: la computer art o arte digitale. Si trattava e si tratta in questo caso di sfruttare le potenzialità "matematiche" dei software per creare immagini virtuali, intervenire su immagini già date e manipolarle, dar vita insomma a tutto il sistema di immaginario degli "effetti speciali" largamente sfruttato anche e soprattutto dal cinema. In questo caso si tratta di "fare arte" secondo logiche formali tradizionali, seppure aggiornate e scaltrite tecnologicamente. Ancor più netta, ed ovvia, è la distinzione con l’uso della rete per scandire, archiviare e diffondere immagini d’arte prodotta "altrove", antica o contemporanea che sia, ivi comprese le ricostruzioni virtuali di musei o luoghi d’arte .
Per tornare alla net.art, occorre sottolineare che i sistemi di comunicazione prodotti non hanno alcuna intenzione "artistica" in senso classico, né connotazione estetica. E’ un’arte "che prescinde dall’arte", nel solco peraltro della lunga storia delle avanguardie moderne che va da Duchamp all’arte concettuale. Quelli che vengono messi in rete sono concetti strutturali che investono di solito, criticamente, la vita sociale, politica, economica oppure mettono in discussione od esplorano le modalità infinite del "mettersi in relazione": Si tende a definire così una "cultura della rete" alternativa ai sistemi dominanti, sia sul piano politico che sul piano del controllo della comunicazione. Non a caso, all’origine della net.art ci sono anche le prove degli hackers, dei pirati informatici che s’inseriscono nelle "stanze di comando" della comunicazione elettronica.
La Net Art ha comunque già non solo una serie di "operatori" nel mondo (soprattutto in Europa e Stati Uniti) ma anche luoghi d’incontro e di "esposizione". Il punto di riferimento internazionale più noto è l’Ars Electronica Center di Linz in Austria, sorto vent’anni fa, che organizza un premio annuale, il Prix Ars Electronica con diverse categorie di segnalazione delle varie forme di creatività "hitech". Ma la Net.Art ha fatto il suo ingresso anche in molte rassegne d’arte contemporanea, come Documenta a Kassel in Germania dal 1997 e la Biennale d’arte americana del Whitney Museum a New York dal 1999. Altra manifestazione specifica è il festival Transmediale.01 di Berlino, che attribuisce premi per "software art".
La
formula “Nouveau Realisme” fu inventata nel 1960 dal francese
Pierre Restany, brillante figura di critico militante, per designare
le esperienze di un gruppo di giovani artisti che rappresentavano
secondo lui l’alternativa europea al New Dada americano, preludio
alla Pop Art. “Nuovo realismo” perché questi artisti riprendono
la lezione interrotta degli storici “ready made” di Duchamp,
l’assunzione dadaista dell’oggetto nel sistema dell’arte.
Ricominciano a prelevare frammenti concreti dalla vita quotidiana, ma
con fantasia enfatica, ironia aggressiva. Arman accumula gli oggetti
banali in serie. César schiaccia lamiere di automobili. Cristo
“impacchetta” cose comuni (e poi, in un crescendo gigantista,
interi monumenti o edifici). Hains straccia manifesti mentre
l’italiano Mimmo Rotella che li reincolla. Spoerri fissa resti di
cena sulle tavole imbandite e le appende. Yves Klein fa imprimere
sulle tele corpi di modelle nude impregnate di colore blu… Dunque
una presa di possesso irriverente del territorio senza confini fra
arte e vita. Così ancora Tinguely realizza con rottami riciclati
sculture semoventi, sussultorie, sonore, Niki de Saint Phalle (nome
d’arte) plasma sculture di esagerata, policroma sessualità, Raysse
gioca con immagini kitsch. Una carica che non si è ancora esaurita.
Il
termine viene introdotto nel '61 dal critico serbo Matko Mestroviæ
teorico anche del gruppo "Zagreb". La Nouvelle Tendence
nasce in un periodo in cui Zagabria, capitale della Croazia diventa
il polo di attrazione per artisti di tutto il mondo. A Zagabria si
tiene la prima mostra della Nouvelle Tendence, alla quale partecipano
anche artisti del gruppo Zero, che Mestroviæ organizza per il Museo
d'Arte Contemporanea. Nouvelle Tendence incentra l'opera sul moto
libero e programmato meccanicamente, a livello percettivo sfrutta le
moderne cognizioni neurofisiologiche per influenzare l'osservatore.
Alla base della teoria di Nouvelle Tendence c’è un linguaggio non
solo artistico, ai confini delle varie discipline, che immette
l'opera nel contesto sociale, avvicinadola alla scienza, alla
meccanica, alla tecnologia.
Nasce
alla fine degli anni Cinquanta, e si sviluppa per tutti i Sessanta e
oltre, una vasta e articolata tendenza di arte internazionale
ispirata alla nuova scienza della percezione. Essa riprende le
esperienze di estensione tecnologica dello sguardo già affrontate
nel primo Novecento da Duchamp (i Rotorilievi) e, in ambito Bauhaus
poi esportato in USA, da Moholy Nagy e Albers. Il fenomeno va sotto
il nome di Optical Art, abbreviato in Op Art per evidente controcanto
alla contemporanea Pop Art. e trova un punto di significativo di
manifestazione nella mostra “The Responsive Eye” al Moma di New
York nel 1965. Si possono distinguere due aree. Una, più vicina all’
arte di astrazione geometrica, punta sugli effetti di inganno e di
vibrazione ottica con combinazioni di segni e colori, per punti,
cerchi, strisce, spirali, vortici ecc. o per textures metalliche
reagenti alla luce. Un’altra area privilegia dinamismi reali,
ottenuti con congegni elettrici o magnetici, con giochi di luci
artificiali o animazioni di strutture, che sollecitano spesso
l’intervento interattivo del pubblico. Gli artisti op tendono a
costituirsi in gruppi. Emergono comunque protagonisti come Vasarely,
Soto, Le Parc, Bury, Riley; in Italia (dove si parla anche di arte
ghestaltica) Munari, Mari, Alviani, Grignani.
Patafisica
è la "scienza delle soluzioni immaginarie", insieme di
principi estetici, letterari e filosofici, ordinato da Alfred Jarry
alla fine del XIX secolo. Questi principi costituiscono, anche se
presentati senza seguire un ordine prestabilito, il materiale dei
suoi testi più conosciuti: "Ubu Roi" (1896) e "Gesta
e opinion del dottor Faustroll, patafisico" (1898). Artisti come
Paul Gauguin, Pablo Picasso, e successivamente il surrealista Andrè
Breton, furono affascinati dalle idee espresse dalla Patafisica.
Nel 1948 viene fondato a Parigi "Il Collegio di patafisica", articolato secondo una complicata gerarchia di satrapi, reggenti, uditori, creato apposta per fare il verso ai consessi accademici.
Il collegio è retto da un curatore a vita (Faustoll), e rappresentato da un originale vicecuratore, rappresentato da sua magnificenza il coccodrillo Lutembi, proveniente dal lago Vittoria.
Nel 1978 è stato deciso l'occultamento del collegio fino all'anno 2000. Sono stati costituiti alcuni collegi patafisici secondari come quello fondato nel 1964 da Enrico Baj, Virgilio Dagnino, Paride Accetti, Arturo Swarz, oppure quello torinese fondato nel 1979, e quello napoletano nel 1965, voluto da Lucio Del Pezzo.
Nel 1948 viene fondato a Parigi "Il Collegio di patafisica", articolato secondo una complicata gerarchia di satrapi, reggenti, uditori, creato apposta per fare il verso ai consessi accademici.
Il collegio è retto da un curatore a vita (Faustoll), e rappresentato da un originale vicecuratore, rappresentato da sua magnificenza il coccodrillo Lutembi, proveniente dal lago Vittoria.
Nel 1978 è stato deciso l'occultamento del collegio fino all'anno 2000. Sono stati costituiti alcuni collegi patafisici secondari come quello fondato nel 1964 da Enrico Baj, Virgilio Dagnino, Paride Accetti, Arturo Swarz, oppure quello torinese fondato nel 1979, e quello napoletano nel 1965, voluto da Lucio Del Pezzo.
La
Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata
esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di
scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si
fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti
proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale,
questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del
mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più
numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal
1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo
Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni
Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure
sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i
Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole
Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri
cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare
gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento
partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti
musicali. Il più celebre è Giuseppe Chiari, membro del gruppo
internazionale Fluxus. Dunque un’arte "totale" che
sfrutta le capacità di riflessione della parola e le suggestioni
delle immagini. Varie le tecniche, dalla scrittura a mano ai collages
fotografici, ai caratteri di stampa e numerosi gli ambiti di ricerca
parallela e le relative denominazioni (lettrismo, poesia concreta,
mail art, narrative art ecc.) specie nel corso degli anni Settanta.
L’emergenza della poesia visiva che sembrava esaurita con gli anni
Ottanta, trova oggi nuove strade con la "video – poesia"
e la Netart. Esperienze analoghe di uso della scrittura si ritrovano
oggi in artiste femministe o politicamente impegnate come Jenny
Holzer e Barbara Kruger.
La
definizione di Pop Art (abbreviazione di "popular art")
nasce negli anni Cinquanta in Gran Bretagna, in seguito
all’attenzione che diversi studiosi e artisti (il principale è
Richard Hamilton, con Hockney, Black, Tilson, Kitaj) dedicarono ai
linguaggi della comunicazione visiva nella società di massa e nella
civiltà delle merci. Ma è sul principio degli anni Sessanta che il
movimento assume notorietà internazionale grazie ad un gruppo di
artisti americani. Essi assumono a base delle loro opere gli oggetti
di consumo e le immagini moltiplicate e stereotipate dei massmedia,
della pubblicità, dei fumetti. Fra loro, il più famoso è Andy
Warhol, che riprese con procedure fra l’impassibilità e
l’ossessione seriale, foto di eventi e personaggi della cronaca o
marchi commerciali, come la cocacola. Liechtenstein, Oldenburg,
Rosenquist, Wesselmann, Segal, Indiana sono altri protagonisti di un
fenomeno complesso che segna un’inversione di tendenza nell’arte
del secondo Novecento: una figurazione che ricalca – con diverse
modalità critiche e inventive – il flusso freddo dell’
immaginario nella società urbana, tecnologica, massificata. Vi
concorrono peraltro artisti che muovono da diverse premesse, ironiche
ed emozionali (il "new dada"), come il grande Rauschenberg,
Johns e Dine.
Col
termine “Scuola Romana” si designa non un movimento teorico o una
tendenza, ma il riunirsi di artisti e intellettuali, attivi a Roma
fra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, intorno all'idea di
pittura come impegno etico e sentimentale. I modelli europei di
riferimento erano quelli della pittura espressionista, da Van Gogh ai
fauves, ad Ensor: collocandosi in tal modo in area alternativa sia
alle avanguardie astrattiste e concettuali, sia al ”ritorno
all’ordine” novecentista. Il nucleo storico da cui mosse quella
esperienza, nel 1928, era composto da Scipione, Mario Mafai e la
moglie Antonietta Raphael, insieme con Capogrossi e Ceracchini, e fu
battezzato da Roberto Longhi “scuola di via Cavour”. In seguito
questo “espressionismo alla romana” che recuperava il senso
drammatico del barocco insieme ad un acceso tonalismo cromatico, si
espresse attraverso esperienze individuali, di tipo più intimistico.
Del gruppo fecero parte Melli, Cavalli, Omiccioli, Ziveri, Stradone,
a cui si affianacrono per per brevi periodi Cagli, Pirandello,
Tamburi. Documenti sulle vicende di quel composito ambiente sono
raccolti nell’Archivio della Scuola Romana nato nel 1983 per
iniziativa di un gruppo di intellettuali fra cui la giornalista
Miriam Mafai, figlia del celebre pittore.
Nei
primi anni Sessanta a Roma un nutrito gruppo di giovani artisti,
fuoriuscendo dalla stagione breve ma intensa della pittura astratta
ed informale, diedero vita a una cultura dell'immagine che
intrecciava icone del consumo di massa (nel 1964 era sbarcata alla
Biennale di Venezia la Pop Art americana) e citazioni dai movimenti
italiani protagonisti del primo Novecento europeo, il Futurismo e la
Metafisica. Il gruppo fu definito "Scuola di piazza del Popolo"
perché si ritrovava in quella storica zona di Roma dove c'era il
caffè Rosati – luogo di incontro quotidiano per letterati e
artisti – ma anche la galleria La Tartaruga di Plino De Martiis, e
altri punti di riferimento. Mario Schifano fu il capofila di una
tendenza artistica che con Festa, Angeli, Mambor, Lombardo, Tacchi,
Giosetta Fioroni, Bignardi, propose una sorta di Pop colto
all'italiana. Un'altra ala del gruppo che comprendeva Ceroli,
Kounellis, De Dominicis, Pascali, Patella, Mattiacci si orientò
verso le ricerche oggettuali dando vita ad esperienze riconducibili
all'Arte Povera, battezzata così nel 1967 da Germano Celant. Ad una
sorta di minimalismo si ispiravano Lo Savio e Uncini. Ulteriori
variazioni agirono Mauri, Rotella, Titina Maselli, Pisani, ampliando
la variegata area di fermenti che hanno scritto un capitolo nuovo
nella storia dell'arte in Italia.
Dopo
la Seconda guerra mondiale, si affermava in arte un’idea di pittura
come gesto che conquista lo spazio reale. Nell’ambito di questo
fenomeno, noto come Informale, si colloca lo Spazialismo italiano.
Nel 1947 ne fu promotore a Milano Lucio Fontana. Il primo
manifesto del movimento fu sottoscritto da critici e scrittori tra i
quali ricordiamo Kaisserlian, Joppolo, Milena Milani. Negli anni
successivi si aggiunsero gli artisti Gianni Dova e Roberto Crippa.
Nel 1951 tra i firmatari del "Manifesto dell’arte spaziale"
figurano anche De Luigi, Guidi, Peverelli. Tuttavia lo Spazialismo
s’identifica col geniale percorso di Fontana, maturato a partire
dagli anni Trenta a contatto con i pionieri dell’astrattismo
milanese e poi a Buenos Aires ("Manifiesto Blanco", 1946).
Per Fontana bisogna esorcizzare l’illusione superficiale
dell’immagine sulla tela, conquistare lo spazio "oltre la
materia": è questa l'idea fondante dei celebri Tagli e Buchi (
"Concetti spaziali") che suggeriscono una dimensione aldilà
della superficie dell’illusione. Fontana userà anche il neon,
spingendosi sino alla profezia del "Manifesto del Movimento
Spaziale per la Televisione" (1952). In tal modo lo Spazialismo
italiano si proietta verso una visione di tipo cosmico-spiritualista,
avvicinandosi così alle esperienze di Mark Rothko in America e di
Yves Klein in Europa.
Quando,
sul finire degli anni ’70, l’arte occidentale avvertì la
necessità di ritrovarsi nelle strutture della tradizione, tra
l’ironia e il disincanto, si sviluppò una vasta schiera d’autori
vincolata ad una determinazione seducente, alla violenta ansia di
recuperare l’ordine della pittura di narrazione.
I protagonisti di questo nascente movimento furono Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria e il primo Mimmo Germanà. Cercano, soprattutto, di riallacciare un rapporto con l’arte italiana degli inizi ‘900, con la metafisica di De Chirico e di Carrà, con De Pisis, Sironi, Scipione ed altri come Tamburi e Viani. Seguiti con interesse da Achille Bonito Oliva e appoggiati dal mercante Emilio Mazzoli, raggiungono in pochi anni un significativo successo negli ambienti internazionali, dove i territori d’arte cari alla Transavanguardia, movimento compiuto, si delineano perfettamente nel ricongiungimento ad una tradizione italica, ai luoghi tipici della pittura e del suo spazio immaginario, alla libertà di riusare, citare e rendere omaggio alle tracce sensibili dell’eredità artistica italiana. Vengono recuperati, appunto, i soggetti classici dell’arte, la natura in particolar modo. Clemente con il suo genere allucinato, grandioso e puerile; Palladino, perduto in una sovrastruttura arcaica e favolistica al tempo stesso; entrambi, allo stesso modo, rappresentanti di uno sguardo che trova nel vuoto e nell’infinito tutto il piacere della propria insufficienza, che può esprimere catarsi solo davanti alle magnifiche sproporzioni del mondo.
I protagonisti di questo nascente movimento furono Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria e il primo Mimmo Germanà. Cercano, soprattutto, di riallacciare un rapporto con l’arte italiana degli inizi ‘900, con la metafisica di De Chirico e di Carrà, con De Pisis, Sironi, Scipione ed altri come Tamburi e Viani. Seguiti con interesse da Achille Bonito Oliva e appoggiati dal mercante Emilio Mazzoli, raggiungono in pochi anni un significativo successo negli ambienti internazionali, dove i territori d’arte cari alla Transavanguardia, movimento compiuto, si delineano perfettamente nel ricongiungimento ad una tradizione italica, ai luoghi tipici della pittura e del suo spazio immaginario, alla libertà di riusare, citare e rendere omaggio alle tracce sensibili dell’eredità artistica italiana. Vengono recuperati, appunto, i soggetti classici dell’arte, la natura in particolar modo. Clemente con il suo genere allucinato, grandioso e puerile; Palladino, perduto in una sovrastruttura arcaica e favolistica al tempo stesso; entrambi, allo stesso modo, rappresentanti di uno sguardo che trova nel vuoto e nell’infinito tutto il piacere della propria insufficienza, che può esprimere catarsi solo davanti alle magnifiche sproporzioni del mondo.
Nel
1968 il tedesco Gerry Schum iniziò a documentare, con riprese
televisive, performances di arte concettuale, povera, di land art, di
cui altrimenti non sarebbe rimasta traccia storica oltre l’occasione
effimera. L’anno seguente Schum fondò ad Hannover la prima
videogalleria, in cui si proiettavano le registrazioni delle azioni
eseguite da artisti poi divenuti celebri come Dibbets, Long,
Oppenheim, De Maria e poi (dal 1970) di Beuys, De Dominicis, Boetti,
Zorio, Anselmo, Gilbert & George. Nasceva così la videoarte,
impresa peraltro resa possibile dalla diffusione della handycam, la
telecamera portatile e maneggevole, alla portata di tutti. Prima di
allora, la stessa esigenza documentaria era stata soddisfatta dai
"film d’artista" girati precariamente in 8mm. Un pioniere
in Italia fu negli anni Sessanta Luca Patella, al quale si deve fra
l’altro lo storico SKMP2 del 1968, in cui sono riprese performance
sue, di Kounellis, Mattiacci, Pascali, Sargentini. Ma contestualmente
all’esigenza di fissare in memoria visiva l’arte di azione, si
proponeva su altro versante la ricerca di un uso alternativo e
creativo del linguaggio televisivo. L’uso per nuovi processi
estetici del medium tecnologico era stato preconizzato in Italia sin
dal 1952, col Manifesto per la Televisione redatto dal gruppo
milanese dello Spazialismo (Fontana, Baj, Crippa ecc.). Ma venne
dall’America, dove la televisione aveva già una sua storia di
pratica diffusione, la prima importante esperienza di manipolazione
ed alterazione delle immagini televisive. Ne fu pioniere l’artista
di origine coreana Nam June Paik che negli anni Sessanta produsse una
serie di video che producevano gli equivalenti di "quadri
astratti" con lampeggianti variazioni di colori, composizioni
cromatiche elettroniche, ma anche sovrapposizioni incalzanti di
immagini tratte dalle comuni trasmissioni (in Europa esperienze di
manipolazione delle immagini della cronaca, anche a fini di polemica
politica e sociale, furono condotte dal tedesco Wolf Vostell).
Un’altra strada fu quella battuta da artisti come Bruce Nauman, che
realizzarono azioni ideate in funzione della telecamera, anche per
esplorare l’interazione fra corpo agente e spettatori. Da queste
premesse, la videoarte ha conosciuto una impetuosa crescita e
maturazione, sino a divenire negli anni Novanta un mezzo di
espressione prevalente, se non addirittura privilegiato, rispetto
alle tecniche tradizionali e manuali dell’arte e rispetto alla
stessa fotografia. L’uso sistematico del colore, l’accorciamento
della durata di trasmissione, la diffusione di elementi spettacolari
di fruizione (videoproiezione su grande schermo, installazione di
immagini multiple con televisori o spazi dinamici), l’introduzione
di "effetti speciali" grazie alla combinazione col computer
e le tecniche digitali: ecco i fattori che concorrono a fare della
videoarte non più una esperienza di faticosa fruizione elitaria, ma
un linguaggio ad alto potenziale immaginativo, parallelo quasi o
alternativo al linguaggio del cinema. Molti video sono infatti
ispirati oggi alla evocazione di ministorie ad alta concentrazione
emotiva o simbolica (fra gli autori oggi più celebrati, l’iraniana
Shirin Neshat). Fra le ormai innumerevoli e qualificate esperienze di
videoarte, se ne possono citare almeno due che hanno introdotto
elementi nuovi di ricerca, espressione e fruizione, grazie
all’intreccio con l’elettronica. La prima frontiera è quella
della interattività: le videoimmagini non sono solo da contemplare,
ma possono essere modificate dagli spettatori- attori. E’ la strada
battuta in Italia dal gruppo Studio Azzurro: situazioni proiettate
per terra, sui muri, per aria, su tavoli, si muovono, cambiano,
spariscono se il pubblico le tocca, o batte le mani, o vi passeggia
su. Su un versante di intenzioni estetiche quasi opposte, ma
anch’esse governate da sofisticata tecnologia elettronica, si
collocano i video di un artista americano che è considerato oggi il
massimo esponente della videoarte, Bill Viola. Egli ha messo a punto
composizioni di personaggi che prendono vita sullo schermo
lentissimamente, con procedura di ralenti elettronico. Questa tecnica
consente all’autore di inventare veri e propri "quadri
viventi", spesso ispirati da opere di arte antica, oppure di
proporre un pathos di alta concentrazione poetica, fra memoria
contemplazione e riflessione, che investe grandi temi spirituali.
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