La bellezza di Elena. Quando le statue greche erano colorate.
mercoledì 20 febbraio 2013 di Noemi Ghetti
Pensieri a margine di un intervento di Salvatore
Settis in occasione della mostra «Ritorno al classico», aperta a
Francoforte fino al 26 maggio, nel quale si narrano le curiose
reazioni, per lo più negative, che si ebbero nell’Ottocento dopo
aver scoperto che le statue greche non erano in origine bianche e
immacolate.
«Terribile è la mia vita e il
mio destino, per colpa (...) della mia bellezza. Oh potessi
imbruttire di colpo, come una statua da cui vengano cancellati i
colori, e una parvenza brutta invece della bella assumere!» esclama
nell’Elena di Euripide la bellissima protagonista, moglie di
Menelao re di Sparta, involontaria causa della guerra di Troia. Il
dramma fu rappresentato ad Atene per la prima volta nel 412 a. C.,
quando infuriava la lunga guerra del Peloponneso. L’amara battuta è
ricordata da Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte che
si batte da anni contro l’incuria e le devastazioni del nostro
patrimonio artistico, nello stimolante articolo Statue colorate?
Fate finta di niente [1].
Cherchez la femme, e in questo caso si potrebbe dire meglio: cercate la statua. E studiatela.
Cherchez la femme, e in questo caso si potrebbe dire meglio: cercate la statua. E studiatela.
- La Venere di Milo, al Louvre
Quando nell’Ottocento gli archeologi europei iniziarono a scavare e
studiare sistematicamente le testimonianze dell’antichità greca,
si trovarono di fronte a un fatto inequivocabile. Piccole ma
innegabili tracce di colorazione si presentavano a volte nelle pieghe
delle carni e delle vesti delle statue, sulla superficie di fregi,
colonne e frontoni dei templi. La scoperta non avrebbe dovuto destare
stupore: i contemporanei ritrovamenti nel Vicino Oriente, in Egitto,
nell’isola di Creta, in Etruria confermavano che tutti i popoli del
mondo antico amavano circondarsi di colori. Rossi purpurei,
splendenti turchini, gialli ocra coloravano le mura di Babilonia, i
palazzi cretesi, i templi e le tombe di Luxor, i frontoni di
terracotta e gli affreschi delle tombe di Tarquinia, gli stupefacenti
vetri fenici che in quegli stessi anni venivano riportati alla luce.
E che troppo spesso, a partire dalla spedizione in Egitto di
Napoleone Bonaparte, venivano massicciamente prelevati dalle campagne
di scavo e trasferiti nei musei europei, dove diventavano oggetto di
studio.
E tuttavia nel caso del mondo greco, la scoperta fu
scarsamente considerata, o addirittura ignorata dalla maggior parte
degli studiosi, come un particolare scomodo o insignificante. Chi
provò a cimentarsi con l’imprevista evidenza della policromia dei
reperti greci, ebbe poco ascolto: continuò a essere coltivato il
mito, tramandato nei secoli, di un’arte greca e poi romana di
assoluto candore. Pura come un’idea platonica venuta
dall’iperuranio, nata come la vergine Atena, dea della sapienza,
direttamente dal cervello di Zeus. Una sorta di immacolata concezione
ellenica che faceva dei Greci un popolo singolare, diverso da tutti
quelli che lo circondavano, e con i quali pure intratteneva fitti
rapporti di scambio commerciale e culturale. D’altra parte, le
stesse statue crisoelefantine di Fidia, intarsiate di oro, di avorio,
di altri metalli e smalti, testimoniavano nell’età di Pericle,
allorché assieme al Partenone si andava costruendo il logos,
il persistente amore, pur in vesti preziose, del gusto per il colore
in uso nel mondo greco dell’età arcaica. All’epoca delle
invasioni persiane, ovvero ancora all’inizio del V sec. a.C.,
l’Acropoli di Atene e i templi di Delfi si annunciavano da lontano
per i loro brillanti colori. Lo testimoniano gli straordinari
ritrovamenti delle “colmate”, le fosse sacre in cui al momento
della ricostruzione furono raccolte e sigillate le rovine superstiti
alle devastazioni, riscoperte intatte appunto nell’Ottocento.
Quando e perché accadde tutto ciò? Con le dovute
cautele è suggestivo immaginare che il passaggio dall’arcaica
policromia alla purezza del bianco sia avvenuto progressivamente a
partire dal IV secolo a. C., in parallelo con quello dal politeismo
della mitologia alla razionalità del logos. L’identificazione
platonica della razionalità del cittadino della polis, adulto
e maschio, come caratteristica specifica umana, si accompagnava alla
campagna di demonizzazione dei barbari. E alla contestuale
codificazione dell’inferiorità di donne, bambini, schiavi.
- Amore e Psiche, di A. Canova
Il bianco divenne da allora l’emblema della civiltà greca. Bianco
marmo pentelico o dell’isola di Paros per i greci Policleto,
Mirone, Prassitele, Fidia, Lisippo e Skopas. Il modello della
statuaria greca si impose sulle orme di Alessandro il Macedone in
tutto il Mediterraneo, fino all’Oriente. E poi, candido marmo
apuano o dalla lontana isola di Thassos per le copie delle statue
greche, avidamente collezionate dai romani in cerca di nobilitazione
culturale. Anche nell’arte, come nella filosofia, Graecia capta
ferum victorem cepit, come scrive Orazio. Il gusto dell’arte
classica si tramanda attraverso i secoli, scavalcando la scultura
lignea dipinta del medioevo cristiano, per rinascere nel Duecento con
Nicola e Giovanni Pisano e continuare con Iacopo della Quercia e
Donatello. E arrivare fino ai candidi blocchi delle cave di Carrara
magistralmente scolpiti da Michelangelo, da Bernini e da Canova, che
seppero far vibrare di forza e far palpitare di passione la freddezza
del marmo. Capolavori che sono diventati icone della cultura
occidentale nel resto del mondo.
Il mito neoclassico di una statuaria di marmoreo
candore, cristallizzato nel Settecento dallo storico dell’arte
Johann Joachim Winckelmann e perpetuato nei calchi in gesso delle
accademie, offriva un supporto ideologico e figurativo ideale per la
leggenda della “superiorità” germanica che dall’inizio
dell’Ottocento prendeva lentamente corpo con l’idealismo
hegeliano e con i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte. La
leggenda delle radici indoeuropee, coltivata in parallelo dalla
filologia germanica, passava dalla glottologia alla genetica,
offrendo un fondamento pseudoscientifico all’idea della purezza
della stirpe. Il bianco (blank è parola tedesca) non era più
la somma di tutti i colori, ma ciò che li respinge, la loro assenza:
diventava il contrassegno della superiorità spirituale.
Minacciosamente candido, come il biancheggiare abbacinante della
spada di Sigfrido forgiata sul fuoco, era il non-colore prediletto da
una funesta cultura che, nel Novecento, avrebbe creduto di avere un
dio dalla sua parte. Per contrario, i colori rutilanti erano segno
caratteristico del cattivo gusto primitivo dei popoli barbarici del
Vicino Oriente e del Mediterraneo meridionale. Al comune visitatore
del Pergamonmuseum di Berlino il passaggio dalla sala bianca
dell’altare di Pergamo (II sec. a.C.) alla monumentale
coloratissima Porta di Isthar di Babilonia (VI sec. a.C.),
ricostruita appunto nel 1936, è ancora oggi assolutamente
stupefacente.
- Altare di Pergamo, Pergamonmuseum, Berlino
.
- Porta di Isthar di Babilonia (VI sec. a.C.), Pergamonmuseum, Berlino
Ed è interessante ricordare come nel ventennio fascista, che
prediligeva il bianco di travertini e marmi nell’architettura e
nella scultura monumentale, ci furono pressioni affinché nella
storica disputa sull’origine degli Etruschi, popolo anomalo
distrutto dai greci e dai romani e difficilmente integrabile nel
paradigma ariano in voga, la tesi dell’autoctonia prevalesse su
quella dell’origine orientale. Purché, a dispetto delle
testimonianze antiche e di tutte le evidenze artistiche, il sospetto
di qualsiasi “commistione” con i popoli mediorientali fosse
evitato.
Solo a partire dagli ultimi decenni del Novecento il
lavoro di ricerca tenace di alcuni studiosi controcorrente consente
gettare nuova luce sul mondo antico. Il linguista Giovanni Semerano
nei quattro volumi del 1984 Le origini della cultura europea. Basi
semitiche delle lingue indoeuropee pubblicati nel 1984 da Olschki
dimostrava con dovizia la comune radice semitica di molte parole
delle lingue cosiddette indoeuropee, con derivazioni in tutte le
lingue moderne del nostro continente. In quello stesso anno fu
pubblicato il volume Atena nera. Le radici afroasiatiche della
civiltà classica, in cui Martin Bernal dimostrava che la cultura
greca è l’erede delle civiltà fiorite in Mesopotamia, in Fenicia,
in Egitto. Secondo lo studioso il “modello ariano” si impose,
appunto, solo a partire dalla fine del Settecento, grazie al velenoso
crescente impasto di romanticismo, razzismo, colonialismo,
antisemitismo.
È tempo di riscoprire il “modello antico”,
peraltro bene attestato dalla stessa mitologia e dalla storiografia
greca.
«Un vincolo di vasta fratellanza culturale lega da cinquemila anni l’Europa, cioè l’Occidente, alla Mesopotamia, l’attuale Iraq, dove fiorirono le inarrivabili civiltà, le culture di Sumer, di Akkad, di Babilonia; è ancora vivo il fascino di quella culla delle arti, delle scienze, del diritto» è il lascito coraggioso di Giovanni Semerano nel suo ultimo libro, La favola dell’indoeropeo (Bruno Mondadori, 2005).
È giunto il tempo per la nostra immaginazione di restituire alla bella Elena, a cui il mito volle attribuire la causa della prima guerra tra Oriente e Occidente che la storia ricordi, e magari anche alle antiche statue e architetture che lo avevano, il colore con cui nacquero. E che il logos greco, sacrificando donne e artisti, barbari e bambini sull’altare di una razionale purezza, volle togliere:
«A questo unico essere saranno attribuiti tanti nomi
quante sono le cose che i mortali proposero, credendo che fossero vere,
che nascessero e perissero, che esistessero e non esistessero,
che cambiassero luogo e mutassero luminoso colore.»
Parmenide di Elea, 8, 38-41, V sec. a. C.
«Un vincolo di vasta fratellanza culturale lega da cinquemila anni l’Europa, cioè l’Occidente, alla Mesopotamia, l’attuale Iraq, dove fiorirono le inarrivabili civiltà, le culture di Sumer, di Akkad, di Babilonia; è ancora vivo il fascino di quella culla delle arti, delle scienze, del diritto» è il lascito coraggioso di Giovanni Semerano nel suo ultimo libro, La favola dell’indoeropeo (Bruno Mondadori, 2005).
È giunto il tempo per la nostra immaginazione di restituire alla bella Elena, a cui il mito volle attribuire la causa della prima guerra tra Oriente e Occidente che la storia ricordi, e magari anche alle antiche statue e architetture che lo avevano, il colore con cui nacquero. E che il logos greco, sacrificando donne e artisti, barbari e bambini sull’altare di una razionale purezza, volle togliere:
«A questo unico essere saranno attribuiti tanti nomi
quante sono le cose che i mortali proposero, credendo che fossero vere,
che nascessero e perissero, che esistessero e non esistessero,
che cambiassero luogo e mutassero luminoso colore.»
Parmenide di Elea, 8, 38-41, V sec. a. C.
Noemi Ghetti