venerdì 8 marzo 2013

Picasso, il gigante della mia infanzia

Corriere della Sera 29.9.09
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine



«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto sal­vo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Pi­casso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni tra­scorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dal­l’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pitto­re: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matri­monio con Olga Kokhlova), è precoce­mente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rap­presentano l’ala femminile della fami­glia. Claude, nella sua veste di ammini­­stratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picas­so administration»: una società che si oc­cupa dei diritti legati all’utilizzo del no­me dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’ini­zio, vivevamo a Parigi in un appartamen­to- atelier sempre pieno di gente che vole­va vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte vie­ne prima di ogni cosa».
E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di en­trare nel suo atelier. Era convinto, ribal­tando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movi­menti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei ver­nissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per ar­ricchire l’esposizione». Anche la differen­za di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena venti­sei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia ma­dre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno».
Anche la quotidianità del piccolo Clau­de non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io ama­vo rompere le automobili per vedere co­me erano fatte. Un giorno cercavo dispe­ratamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vi­di incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capa­cità di ridare vita a cose morte. Fui testi­mone a Vallauris di un altro piccolo mira­colo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma».
Il senso dell’umorismo, fino all’irrive­renza, era un tratto particolare del suo ca­rattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guer­nica .
Alcuni ufficiali nazisti vedendo la ri­produzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scop­piò con la morte di Stalin: Pablo lo dipin­se giovane e mandò su tutte le furie i diri­genti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella li­bertà dei popoli».
Tra i ricordi, occupano un ruolo fonda­mentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di cono­scere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rappor­to speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tes­sevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio es­sere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissi­mi nuovi quadri che non avevo ancora vi­sto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era an­che cosciente del fatto che i giovani, libe­ri da pregiudizi intellettuali, potevano es­sere i suoi migliori interlocutori. Poi, gra­zie anche ai consigli di mia madre, cam­biai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piaceva­no ».
Pur respirando l’arte ogni giorno, Clau­de non ha mai pensato di seguire le or­me del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gi­gantesca. Per tutta la vita Picasso ha so­stenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fidu­cia nella scuola, insegna soprattutto la ri­petizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio non­no, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Par­tire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionar­li, farli esplodere».
I ricordi dei momenti feli­ci non cancellano però le sof­ferenze. «Ho vissuto con do­lore la separazione dei genito­ri. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vede­vo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande fe­sta. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudi­ne. E talvolta lo aiutavo nelle scul­ture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due fi­gli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra fami­glia era ancora tutta da immaginare».
Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indi­rettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allu­de anche alla separazione dalla sua pri­ma moglie, Olga. Lui si vede come un mo­stro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interes­santi pure le allegorie del pittore: gli ar­lecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la so­litudine dell’artista, la sua emarginazio­ne. Un uomo celebrato da tutti, ma pro­fondamente cosciente delle tristezze del­la vita e delle angosce che comporta qual­siasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pub­blicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».